Uomini, per la maggior parte tra i 18 e i 38 anni, con basso livello di scolarizzazione. Di nazionalità marocchina, soprattutto, ma anche, in proporzione quasi pari, ragazzi nati e cresciuti in Spagna.

Questo è il profilo tipico del jihadista iberico, secondo uno studio coordinato dal Professor Fernando Reinares per il Real Instituto Elcano, condotto su 178 persone arrestate tra in Spagna tra il 2013 e il 2016 per attività connesse al terrorismo jihadista.

Immediatamente spicca il dato sull’istruzione, a conferma del fatto che la propaganda estremista attecchisce là dove non incontra la barriera di una basa culturale adeguata.

Ma esiste anche un problema socio-demografico, legato a doppio filo a quello dell’istruzione: un quarto dei detenuti non aveva lavoro o viveva di occupazioni saltuarie, alternando l’attività jihadista alla delinquenza e la criminalità comune: di nuovo, un contesto di emarginazione sociale, è brodo di coltura perfetto per aspirazioni violente di rivalsa o di vendetta (si noti che in tutti i soggetti analizzati la radicalizzazione è iniziata a partire dal 2011 o 2012, cioè dopo lo scoppio della guerra in Siria).

In secondo luogo, lo studio evidenzia un dato forse non del tutto intuitivo: la radicalizzazione non avviene proporzionalmente alla densità della popolazione musulmana sul territorio, ma in «sacche» geografiche che in ordine di prolificità sono: la provincia di Barcellona (residenza del 23,25% degli arrestati), Ceuta, Madrid (compresa l’area metropolitana) e l’altra enclave in territorio marocchino, Melilla.

Ma perché, o meglio che cosa induce giovani che vivono in un contesto europeo ad abbracciare la causa di morte della Jihad? E, ancora, perché a parità di condizioni socioculturali ed economiche, alcuni soggetti intraprendono la strada della radicalizzazione e altri no?

Intanto bisogna sottolineare che la radicalizzazione solitaria costituisce una schiacciante minoranza: un soggetto su dieci, mentre gli altri nove intraprendono in gruppo il processo di estremizzazione.

Per il 40% il percorso avviene online e offline, per il 35% solo dietro lo schermo di un computer e per il 24% soltanto con contatti personali.

Da ciò deriva, come spiega il professor Reinares – direttore del Programma sul Terrorismo Globale del Real Instituto Elcano e cattedratico dell’Università madrilena Rey Juan Carlos – che in ambito spagnolo ci siano sostanzialmente due fattori di radicalizzazione: il primo è il contatto diretto con altri individui radicalizzati.

Nel caso di contatti faccia a faccia lo studio evidenzia una preponderanza, nel ruolo del radicalizzatore, di figure religiose o comunque in grado di esercitare una certa autorità sul soggetto radicalizzato; mentre online il lavaggio del cervello avviene per mano di figure socialmente paritarie.

Il secondo fattore consiste nell’esistenza di vincoli sociali con soggetti radicalizzati: parenti, amici o vicini (spesso a loro volta detenuti o, in molti casi, combattenti). Da questa spiegazione emerge l’importanza di reti sociali fitte e concentrate nello spazio per la trasmissione dell’ideologia jihadista.

La prossimità, la chiusura (spaziale e mentale), sono micidiali scintille d’innesco di potenziali terroristi, come la ricerca evidenza. Inoltre l’effetto combinato di questi due fattori spiegherebbe perché esistono focolai concentrati di trasmissione e perché, a parità di condizioni socio-demografiche, alcuni cedono al richiamo della jihad e altri no.