Ne ha ucciso più l’omissione dei soccorsi che il terremoto. Ormai è chiaro. E non è finita. Il primo giorno si diceva che il numero del morti – lunedì si sapeva di 760 – sarebbe stato, alla fine, almeno raddoppiato. Oggi si parla di cinque, forse dieci volte tanto. Nessuno può fare una cifra definita perché, a tre giorni dal disastro, ci sono zone in cui non si è ancora arrivati e là dove si è arrivati, spesso si è arrivati a mani vuote. Intanto piove, viene il freddo, questo mezzogiorno dell’osso – di cui è lecito sospettare che non si conoscono i morti perché non si conoscono con esattezza neppure i vivi dei piccoli insediamenti ignorati dagli uffici dello stato – è duro, rigido, umido.

Le notti all’addiaccio, la mancanza di medicine e di cibi faranno altre vittime. Mai l’inefficienza dei pubblici poteri è stata così mortale. L’Italia è paese di alluvioni, terremoti e catastrofi naturali. Ma non siamo ai tempi del terremoto di Lisbona e neppure di quello di Messina. Queste insorgenze della natura possono essere parzialmente prevedute, largamente prevenute, attivamente riparate.

Se questo non succede non è fatalità, è colpa. Da dieci anni una legge, non cattiva, ha predisposto un piano di misure per queste emergenze, ma il governo si è guardato bene dal predisporre quelle norme di attuazione senza le quali essa rimaneva inoperante. Così anche stavolta la responsabilità è precisa; è dei governi che da allora si sono succeduti e non hanno trovato il tempo di occuparsene, malgrado l’obbligo che gliele incombeva; del parlamento, che fatte le leggi non controlla se il governo non gliele vanifichi; del sottogoverno che intanto preferiva elargire in assistenze clientelari, a scopi di procacciarsi affari e voti, quei mezzi che avrebbero dovuto andare a risanamenti di fondo e a strutture di soccorso emergenti. Ma è anche responsabilità della sinistra, che non fa il suo dovere di verifica del governo e del parlamento. Non sa che ritualmente piangere sul mezzogiorno, invece che organizzarlo in forze e idee e obiettivi che costringano a cambiare. Per questo la gente del sud è infuriata; non piange solo ma urla. Il presidente Pertini non ha trovato attorno a sé postulanti, ma popolo che chiede i conti al potere.

Questi vanno chiesti, tutti e subito. Qualcuno ha forse pensato lunedì mattina che la sciagura nazionale veniva a coprire, ricacciandola in secondo piano, la vicenda degli scandali. Sbagliava. Quel che è avvenuto da domenica notte dimostra non che l’apparato dello stato è corrotto, ma che è soltanto corrotto. Che non è vero che mance, tangenti, ricatti si pratichino negli interstizi d’una normale e pressoché moderna amministrazione, ma che questa è ormai totalmente intasata da queste losche faccende, su cui si scaricano tempi energie e iniziative dei forti, mentre i deboli – che sono poi le persone per bene, e ce ne sono – restano paralizzati. La corruzione non lascia tempo per altro. Se no non si spiega perché elementari misure, come quelle di raggiungere in elicottero zone a un’ora di volo da Roma non vengono realizzate che in quantità minime, gli elicotteri restando fermi da Roma a Varese alla, mercé di quel che gira al comandante locale; perché le molte decine di migliaia di uomini e di mezzi dell’esercito non sono arrivati entro le dodici ore con mezzi speciali e in altre dodici non abbiano scoperchiato quel che c’era da scoperchiare e salvato chi ancora viveva. Perché non siano stati ancora requisiti tutti gli alberghi della costa amalfitana e del golfo di Napoli per mettere al riparo i senza tetto. La verità è che lo stato non sa che cosa, come e quando fare perché è impegolato in lotte di fazioni e di apparati che si combattono e coprono vicendevolmente. Il potere non ha più oggetto se non la propria sopravvivenza al punto più basso.

Noi non amiamo gettare sulle Istituzioni, che pure non veneriamo affatto, più merda di quanto stiano gettando già su se stessi. Non serve protestare e poi, siccome anche il momento dello sdegno passa, sostituire alla protesta il ragionamento. Diciamo però che c’è qualcosa in questa sfera politica che non è in grado di intendere né la protesta né il ragionamento. Non è in grado di intervenire e di cambiare. È perfino inutile chiederlo. È più serio dire oggi, a chi ci legge, che occorre intanto puntare sulla solidarietà, alternativa. La risposta del paese v’è, è ancora grande. L’inerzia delle istituzioni pubbliche non è diventata ancora inerzia della coscienza del singoli. Gruppi, associazioni, sindacati, l’apparato elettivo diffuso, per questo bombardati dal centro, messi nell’impossibilità di agire dall’orda dei prefetti (mai hanno dato uno spettacolo Indegno come ora), privato di mezzi, si danno da fare. Di questi comuni e regioni e sindacati e gruppi giovanili, e non, che cercano dì operare bisogna fidarsi. Bisogna aiutarli. Bisogna sperare che riescano a coordinarsi e coordinare gli aiuti. Questo è lo stato su cui si può ancora sperare.

Per l’altro ci vogliono operazioni chirurgiche. Lasciamo che il papa giunga e preghi. Dalla Presidenza della Repubblica e presidenza delle Camere attendiamo altre parole, nei loro limiti ma anche doveri costituzionali; parole che ripuliscano il vertice del potere per riconquistare il diritto di parlare ai cittadini oggi colpiti non solo dalla catastrofe degli eventi, ma dalla inerzia di chi pretende di governarci. E intanto, come successe quest’estate a Bologna, diciamo alla gente: non aspettate aiuti centrali, andate, intervenite, mandate dal diavolo i posti di blocco e i prefetti, nessuno sarà più illegale di quel governo che ha vanificato illegalmente la legge che vi doveva soccorrere. Nelle nostre pagine troverete tutte le indicazioni affidabili che saremo In grado di darvi. Quanto alle forze politiche, se avranno, o se gli verrà impresso, quel sussulto che finora è loro mancato, vadano alle Camere a confessare: «Abbiamo mancato verso i vivi e i morti. Non chiediamo assoluzioni. Ma da domani si farà così e così». Non gli saranno perdonati i giorni da domenica notte a oggi, ma forse quelli che verranno.