Può succedere che le cose ritornino visibili solo quando sfuggono allo sguardo. Che un’eclissi, invece che rabbuiare, illumini. Dia luce a comportamenti, aspirazioni, assenza o presenza dell’umanità individuale e collettiva. Così una scomparsa può farsi rivelazione, l’intangibilità dell’altro svelare la reale natura di sé.

Nella Palestina storica è accaduto nel 1948. Nel romanzo di Ibtisam Azem accade oggi. Ne Il libro della scomparsa (Hopeful Monster, pp. 184, euro 23) la scrittrice palestinese, nata e cresciuta a Taybeh, a nord di Giaffa, immagina un assurdo: una mattina qualsiasi gli israeliani si svegliano e i palestinesi non ci sono più. Dissolti, volatilizzati.

All’alba gli autobus nelle città israeliane non passano e a nulla servono le recriminazioni di chi è in ritardo in ufficio. I cantieri e le serre si fanno spettrali. Non ci sono più le braccia che tengono su una buona fetta dell’economia israeliana.

Si diffonde il dubbio e la paura. C’è chi azzarda ipotesi: uno sciopero generale tenuto astutamente nascosto; o magari un machiavellico atto di terrorismo; oppure la miracolosa soluzione al problema che da 73 anni ogni leadership israeliana ha tentato di soffocare con altre sparizioni, prorompenti e di massa o minute e sotto traccia.

Azem traccia un parallelo doloroso con «quell’anno», il 1948, un parallelo immediato seppur sotteso e mai dichiarato. Lo fa attraverso tre voci, ognuna con un diverso grado di presenza nella realtà. C’è la voce di Alaa, palestinese di Giaffa, residente a Tel Aviv. Scompare anche lui, ma del suo pensiero e della sua fisicità resta un taccuino rosso, il diario in cui si rivolge alla nonna morta da poco, ultima testimone in famiglia della Nakba, la catastrofe del 1948.

C’è quella di Ariel, giornalista israeliano: vive nel palazzo di Alaa, ne diventa amico. Troverà il diario nell’appartamento di Alaa e lo leggerà, formandosi gradualmente una consapevolezza del dramma identitario dell’amico: a tentoni prova a farlo proprio, senza successo.

E c’è la voce, che giunge indiretta nel ricordo di Alaa, di sua nonna. Testardamente rimasta a Giaffa nonostante le bombe delle milizie sioniste nel 1948, poi costretta per anni nel ghetto di Ajami, privata della sua casa e della sua città.

È lei che racconta, senza parlare mai, la trasformazione di un popolo. O meglio, la sua scomparsa. La sparizione di centinaia di migliaia di palestinesi in pochi mesi: scappati dalla guerra, costretti alla fuga dai massacri, caricati su navi e camion verso i paesi vicini.

Inghiottiti nel 1948, inghiottiti di nuovo sette decenni dopo. Stavolta non dalla violenza ma dalla loro stessa terra, come se la Palestina – in un atto crudele o misericordioso – li avesse cancellati dalla Storia per porre fine a un inestirpabile dolore.

L’esercito israeliano li cerca: entra nelle case palestinesi dentro Israele, a Gaza, in Cisgiordania, non trova nessuno. Come evaporati: in molte case la tv è ancora accesa, in altre c’è la cena pronta sul tavolo.

Quell’evaporazione però non nasconde soltanto. Mostra. Accende un faro sull’altra società, quella israeliana. Racconta della reazione a un fatto surreale. Come reagirebbe Israele se sette, otto milioni di palestinesi scomparissero all’improvviso? E cosa farebbe ogni singolo israeliano?

Cosa farebbe Ariel, un democratico, un giornalista, uno che ha per amico un palestinese, che beve vino con lui e con lui discute di politica? Uno che a differenza della maggior parte dei suoi concittadini dice «Cisgiordania» e non «Giudea e Samaria», il nome biblico utile ad affermare il possesso coloniale.

Il libro, la cui potenza di contenuti si specchia nella scrittura limpida di Azem, dà la sua risposta nelle ultime pagine. Svelarla sarebbe uno sgarbo a lettrici e lettori.

Ma è lì, nell’ultimo capitolo, che quell’improvvisa eclissi si dirada per fare luce sulla natura di una società, una natura collettiva che permea il comportamento apparentemente anormale dei singoli individui. Il destino di Giaffa, dei rifugiati palestinesi, della nonna, diventa quello di Alaa. E il destino dei «pionieri» israeliani quello di Ariel.