«Cosa ho fatto forse non l’ho ancora capito sono solo sicuro che non si tratta di un film» dice Bela Tarr. Siamo appena usciti da Missing People e quella certezza si contrappone allo stupore con cui il regista sembra guardare il suo nuovo lavoro presentato all’interno del Wiener Festwochen – concluso sabato scorso – manifestazione che per alcune settimane propone nella capitale austriaca i protagonisti della ricerca contemporanea intrecciando teatro – Milo Rau (Orest in Mossul), Romeo Castellucci (La vita nuova), Angelica Liddell (The Scarlet Letter) – installazioni – Apichatpong Weerasethakul (Fever Room), performance.

NO, «MISSING PEOPLE» non può essere un film anche perché dopo Il cavallo di Torino (2011) Tarr aveva annunciato che non ne avrebbe girati più, il cinema per lui era diventato un linguaggio che aveva esaurito le sue potenzialità. E non lo è anche se l’immagine – con la fotografia di Fred Keleman, complice storico del regista – è protagonista, messa in scena nella sua sostanza quasi antitetica all’esigenza del racconto, quello che lui definisce «la stupida sceneggiatura a cui tutto il cinema adesso è costretto». I suoi film non si sono mai sottoposti a questo nella loro forma radicalmente al di là di ogni definizione di «genere» , «pura opposizione di due ordini sensibili» – come scrive Jacques Rancière ( Il tempo del dopo): durata, attesa, eterno ritorno, ripetizione dell’istante. Il gesto politico di porre l’individuo fisicamente nel tempo.

Cosa è dunque Missing People, che cosa ci racconta, in quali luoghi del presente e dell’umanità si avventura? E soprattutto quale è la domanda che pone all’immagine oggi? Siamo in Austria, l’Europa benestante che protegge la propria serenità rafforzando controlli, confini, sicurezza. «Vienna è la città con la più alta qualità di vita al mondo, un dato confermato anche nel 2018. Ma la facciata immacolata dello splendore asburgico e della Sacher torte è solo una parte. Molti dei suoi abitanti non entrano in questa fotografia, vengono nascosti, celati come la povertà dalla gerarchia della scala sociale» si legge nella presentazione di Missing People. Al Museums Quartier- sede del Festival – ricavato dal complesso delle scuderie imperiali, la grande corte è affollata di gente che attende l’inizio degli spettacoli, si lascia andare sulle comode poltrone, cerca refrigerio ai tavolini dei caffè in una sera d’estate particolarmente torrida. Dentro la Halle E, la luce è bassa, vira al rosso, si entra, ci si sistema ai lati, su delle gradinate: una fila di tavolini nel mezzo separa il pubblico, piatti sporchi, tartine smozzicate, bottiglie vuote di champagne fanno pensare ai rimasugli di una festa. Qua e là mucchi di vestiti, borse vuote, un sacco a pelo spiegazzato ci dicono che quello spazio è stato abitato prima di noi.

INIZIA LA MUSICA, tre schermi scendono dall’alto, vediamo il luogo in cui siamo ora, qualcuno si affaccia alla porta, un uomo sulla sedia a rotelle, e poi altri, decine, centinaia, un «quarto stato» del contemporaneo l’affolla: si avvicinano ai tavoli imbanditi, mangiano, bevono, sorridono mentre dal colore delle prime sequenze si passa al bianco e nero. Chi sono quelle donne e quegli uomini non è difficile comprenderlo: i poveri, chi vive in strada, chi non ha nulla, chi è ai margini relegato per definizione sul «bordo» della società e della sua rappresentazione. Il tempo scorre, si ripete, ci trasporta lì: siamo spettatori e insieme abbiamo oltrepassato lo schermo. Non succede nulla, succede tutto mentre la macchina da presa si sofferma sui gesti, sui volti, sui corpi di quelle persone, sul ripetersi di un banchetto improvviso e inaspettato che li mette al centro, li rende protagonisti. Un anziano suona, un uomo si dipinge di argento e improvvisa da mimo, due danzano, una coppia scioglie nella dolcezza di un abbraccio la paura e il dolore. Non ci dicono a parole le loro storie: ognuna sarà diversa, ognuna sarà una vita, ognuna mischierà dolore, perdite, improvvisi salti nel buio. Ma non è questo che Bela Tarr vuole, quei racconti infatti sono già lì, nel suo sguardo, nella fisicità quasi caravaggesca con cui l’immagine ce li restituisce più forte di ogni spiegazione.

Per creare Missing People Bela Tarr ha lavorato sei mesi a Vienna cercando i suoi protagonisti tra gli homeless della città, duecentocinquanta persone di cui ha ascoltato ciò che gli volevano dire, le esperienze, il passato, le abitudini fondando a poco poco quella relazione necessaria alla macchina da presa per filmarli contro la retorica della miseria nella quale troppo spesso vengono richiusi i poveri quasi a sottolineare la distanza, un «noi» e un «loro» che rassicura qualsiasi inquietudine. Il confine qui invece viene rotto e non solo perché alla fine lo schermo si alza invitando tacitamente il pubblico a superare la soglia della parete teatrale, e a sedersi ai tavoli che ricordano quelli di un qualsiasi «Biergarten» a bere un bicchiere, a fermarsi ancora insieme a quelle «persone scomparse» i cui volti si susseguono su un altro schermo nel silenzio appena rotto da una fisarmonica.

RIPENSANDO la fruizione dell’immagine dalla sala cinematografica a un altro spazio, dal film alla «moving image» – e alla conseguente «ricollocazione» dello spettatore – Bela Tarr trova di nuovo sul confine del tempo la scommessa – e l’urgenza – di un’utopia. Quanto le immagini ci mostrano è già passato, quella notte alla fine della quale qualcuno non si sveglierà è accaduta, ciò che vediamo ne è una memoria ma è anche il frammento «mancante» alla storia del presente in cui si dissolve l’invisibilità di ogni personaggio, che lo illumina, lo rende specchio di ciascuno di noi. E in questo spazio – o salto? – le immagini trovano una loro nuova forza, una improvvisa libertà, un senso dell’esistere che è quella umanità a cui restituiscono una presenza, un racconto senza parole universale e contemporaneo.