Si può dire una volta tanto che Matteo Renzi ha ragione, ragione da vendere? Lo scontro nell’ultima direzione del Pd è stato aspro, a tratti sgradevole, e va bene. L’uomo è raramente simpatico, preso com’è da passione narcisistica per la propria appassionante persona. D’accordo. Ma qual è, al dunque, la sostanza del contendere tra lui e la minoranza del partito, arrembante dopo il disastro di giugno?

Al netto delle metafore, gli avversari del presidente-segretario gli chiedono di rinunciare al doppio incarico. Lui replica a muso duro: scordatevelo. Può dispiacere a chi amerebbe che la politica fosse un gioco tra amici in vena di cortesie reciproche, ma perché, a guardar bene, Renzi dovrebbe acconsentire?

Nel respingere al mittente la richiesta, Renzi ha impiegato argomentazioni deboli perché enunciabili pubblicamente. Ha chiamato in causa lo statuto (se volete che molli l’osso, cambiatelo) e i rapporti di forza nel partito (prima vincete il congresso, poi se ne riparla). Ineccepibile, ma un alquanto burocratico. In realtà avrebbe potuto far valere un altro argomento, ben altrimenti pesante. Quindi indicibile. Che cosa gli si proponeva, in definitiva?

Uno scambio indecente. Tu ci dai la segretaria, noi ti lasciamo in pace in parlamento, non ci mettiamo di traverso quando ci chiedi i voti, non protestiamo quando amoreggi con Verdini, ti facciamo governare senza difficoltà. Non è così, forse? Se non fosse così – se la minoranza chiedesse la segreteria per fare finalmente opposizione – allora si tratterebbe di pura insania. Quale politico, quale persona di normale buon senso non votata al suicidio, potrebbe volere accrescere la forza dell’avversario per il solo gusto di ritrovarsi in più serie difficoltà?

Dunque un patto. Perché indecente? Perché se in linea di principio una minoranza mira a far prevalere una diversa agenda politica, l’unica ratio di questa proposta è la difesa delle ragioni personali degli attori coinvolti. Ci si perdoni la volgarità, ma questa è, a conti fatti, l’unica traduzione possibile. Quel che si vorrebbe, al di là delle fumisterie, è una divisione delle cariche e del lavoro politico grazie alla quale ciascuno possa accreditarsi dinanzi al proprio elettorato: chi governa, per le scelte che assume, notoriamente gradite ai padroni, alle lobbies e ai gruppi di potere; chi ambisce a reggere il partito, per le parole temerarie che dice in libertà. Salvo continuare a sostenere il (mal)governo nelle aule parlamentari.

Renzi, l’abbiamo scritto in questi anni sino alla noia, è un governante rovinoso. Lascerà questo paese allo stremo sul piano economico, istituzionale ed etico-politico. Quando sarà costretto ad andarsene (forse tra breve, se non gli riuscirà di placare le ansie elettorali degli alfaniani), avrà dato un contributo decisivo all’opera devastatrice del suo mentore di Arcore. Questo è fuori discussione.

Ma non sarà mai troppo presto quando ci si accorgerà che, se dopo Berlusconi (e Prodi e Monti e Letta) ci siamo ritrovati Renzi, e se l’unica alternativa a Renzi sono a questo punto i grillini, non è solo per la proverbiale resilienza della stirpe democristiana né per la presunta vocazione centripeta del popolo italiano, ma anche, soprattutto, per l’assenza di qualsiasi reale opposizione di sinistra. Sicché non serve proprio a nulla – anzi non fa che ribadire questo stato di cose, mascherandolo e consolidandolo – dare credito a un settore parassitario del ceto politico (l’utilità sociale dello psicodramma inscenato dalla minoranza del Pd è pari a zero) che da decenni si limita a lucrare sulla propria rendita simbolica autodefinendosi «sinistra». Salvo praticare, nei fatti, politiche moderate o rispondere alla destra con un’opposizione compromissoria. Oppure, come in questo caso, avanzare proposte indecenti.

Dispiace ma è così. Perciò Renzi ha ragione, da vendere. Per questo stesso motivo non ha bisogno di concedere alcunché a chi da oltre due anni, al dunque, non fa che allinearsi. E ancor oggi desidera soltanto partecipare ai benefici e ai privilegi di una sedicente «classe dirigente».