Curare il Covid-19 è ancora un’impresa anche in paesi ricchi e attrezzati come l’Italia. Tra anticorpi monoclonali e pillole antivirali, le terapie non mancherebbero. Ma il virus, grazie all’elevata capacità di mutare, riesce ad aggirarle. Anche il sotrovimab, il terzo (e ultimo) anticorpo monoclonale a disposizione dell’Italia, risulta innocuo contro la variante Omicron 2. Ad affermarlo è un rapporto appena pubblicato dalla Food and Drug Administration (Fda), l’agenzia statunitense che valuta i farmaci. In base ai dati forniti dalla casa produttrice Gsk, la Fda ritiene «improbabile» che il sotrovimab sia efficace contro Omicron 2. L’attività antivirale dell’anticorpo infatti cala di 16 volte nei confronti della nuova variante. L’agenzia dunque lo sconsiglia negli Stati in cui la variante è prevalente.

LA NOTIZIA RIGUARDA anche l’Italia. Le ultime ricerche dell’Istituto Superiore di Sanità mostrano che anche da noi Omicron 2 sta rapidamente prendendo il sopravvento: tra il 31 gennaio e il 7 marzo la sua incidenza è passata dal 3 al 44% dei casi ed è probabile che sia già il ceppo dominante. Dopo il fallimento dei primi due anticorpi (prodotti dalla Regeneron e dalla Eli Lilly) nei confronti di Omicron, il nuovo ko potrebbe lasciare l’Italia senza monoclonali. Secondo l’ultimo rapporto dell’Aifa, relativo alla settimana 16-23 marzo, il 91% delle prescrizioni di anticorpi riguarda il sotrovimab. I dati della Fda suggeriscono che gran parte di queste prescrizioni siano state inutili.

Oltre ai monoclonali, l’Italia potrebbe contare su altri due farmaci in grado di fermare il Covid ai primi sintomi ed evitarne l’aggravamento nei pazienti a rischio. Si tratta delle pillole antivirali Lagevrio prodotta dalla Merck e Paxlovid della solita Pfizer. Ma anche questi farmaci risultano fortemente sotto-utilizzati, sempre in base ai dati Aifa. Nella stessa settimana 16-23 marzo il Lagevrio è stato somministrato 2.081 volte, cioè solo nello 0,42% del circa mezzo milione di casi registrati in sette giorni. Il Paxlovid appena 1.208 volte, cioè nello 0,24% dei casi. Eppure le dosi non mancano. Tutti i 49 mila trattamenti di Lagevrio ordinati dal governo sono già stati consegnati, mentre del Paxlovid, di cui attendiamo 600 mila dosi nel 2022, riceviamo 50 mila trattamenti al mese.

IL BASSO UTILIZZO degli antivirali non è dovuto alla scarsa efficacia. I medici segnalano l’eccessiva burocrazia che ostacola l’utilizzo di un farmaco che andrebbe somministrato entro i primi 3 giorni dall’inizio dei sintomi. La trafila però è accidentata. Innanzitutto c’è la questione dei test: i tamponi rapidi fanno registrare un elevato numero di falsi negativi e alla diagnosi si arriva speso solo dopo un test molecolare che richiede 24 ore. Poi, il medico di base deve valutare la situazione del malato, che può ricevere le pillole solo se rientra nella categoria a rischio per l’età o altre patologie. Infine, per ricevere il farmaco il paziente deve recarsi in un reparto di malattie infettive di un ospedale, non sempre a portata di mano soprattutto fuori dalle grandi città. Risultato: in troppi casi il farmaco arriva tardi.

«Va forse reso più agile il meccanismo di accesso» riconosce anche il presidente del Consiglio Superiore di Sanità Franco Locatelli. Per il Paxlovid, che vanta un’efficacia vicina al 90%, c’è un problema ulteriore, spiega l’infettivologo del Policlinico di Tor Vergata (Roma) Massimo Andreoni: «Il farmaco ha molte interazioni farmacologiche che sono un rischio in anziani positivi al Covid con comorbidità. È un farmaco, dunque, da maneggiare con cautela e attenzione da mani esperte».

ALLA SCARSITÀ DI RIMEDI contro il Covid si somma un altro fenomeno paradossale: molti medici di base prescrivono farmaci la cui efficacia contro il Covid-19 non è supportata da dati scientifici. Lo documentano in uno studio appena pubblicato dalla rivista Frontiers in Pharmacology i ricercatori dell’Aifa e del Dipartimento di Epidemiologia del Lazio. «La terapia più utilizzata – scrivono – è stata quella antibiotica, soprattutto l’azitromicina, nonostante le raccomandazioni negative dell’Aifa». La ricerca, si legge nelle conclusioni, «sottolinea la discrepanza tra le raccomandazioni terapeutiche e la pratica clinica e la necessità di strategie che conducano a scelte basate sulle evidenze scientifiche».