Francia e Gran Bretagna alzano i toni, si affrontano e si scaricano a vicenda la colpa, minacciano ritorsioni, nella notte tra mercoledì e giovedì due navi britanniche sono state multate e una bloccata nel porto di Le Havre. In serata la risposta britannica con Johnson che comunica di aver convocato l’ambasciatore francese a Londra. Già nel maggio scorso Londra aveva inviato una nave da guerra al largo di Jersey.

La febbre riguarda il settore della pesca, che era stato l’ultimo a trovare un accordo a fine 2020, alla vigilia della Brexit, malgrado pesi solo per lo 0,1% nel pil Ue e della Gran Bretagna. Un anno dopo, i problemi rimangono irrisolti e la tensione cresce con le feste di fine anno che si avvicinano, novembre e dicembre rappresentano il 30% del fatturato dei pescatori in Francia.

Parigi afferma che martedì 2 novembre verranno annunciate delle «misure», se Londra non rispetta gli accordi del 2020: 6 porti francesi verranno «proibiti» alle barche britanniche, che non potranno più sbarcare prodotti del mare e metterli in vendita, ci sarà inoltre un rafforzamento dei controlli sanitari, doganali e di sicurezza da parte delle autorità francesi. In più, ci sarà «zelo» nei controlli di tutti i camion, che trasportano qualsiasi tipo di merci, da e per la Gran Bretagna. Infine, la Francia potrebbe tagliare la corrente alle isole anglo-normanne di Jersey e Guernesey, che dipendono dalla rete francese per l’elettricità (anche se poi Edf sta costruendo una centrale nucleare in Gran Bretagna).

La tensione sulla pesca si aggiunge a quella sui migranti e allo scacco dell’Aukus, che Parigi non ha perdonato, dopo aver perso la vendita dei sottomarini all’Australia, mentre Londra fa parte dell’accordo. «Non è una guerra, è un combattimento» dice la ministra del Mare, Annick Girardin.

«Nessun altro campo di cooperazione europea con la Gran Bretagna potrà progredire – minaccia il sottosegretario agli Affari europei, Clément Beaune – senza aver ristabilito la fiducia e senza applicare completamente gli accordi firmati, adesso dobbiamo parlare la lingua della forza, perché temo, purtroppo, che il governo britannico capisca solo quella». È sceso anche in campo il primo ministro, Jean Castex: «l’escalation non è colpa della Francia, siamo aperti a discussioni, mattino, mezzogiorno e sera».

Londra minaccia ritorsioni, il sottosegretario all’Ambiente, George Eustice, afferma che le multe sono «deludenti e sproporzionate», ma suggerisce di «restare calmi». La Francia si appella a Bruxelles. La battaglia è sulla concessione delle licenze di pesca per i pescatori della Ue nelle acque britanniche, gli inglesi, che vogliono recuperare delle quote di pesca, assicurano che la Ue ha presentato 2127 domande di licenze e ne sono state concesse 1913, cioè il 90,3%, ma la Francia ribatte che quel 10% mancante riguarda i francesi (c’è scontento anche in Belgio e Olanda, meno in Irlanda, Spagna, Svezia, Germania e Danimarca).

A Boulogne-sur-Mer, per esempio, da mesi c’è tensione, i pescatori locali hanno subito perdite del 50%, su 112 barche solo una ventina hanno avuto la licenza. I più penalizzati sono i piccoli pescherecci, inferiori a 12 metri, che pescano tra le 6 e le 12 miglia, che sono senza obbligo di geo-localizzazione e quindi non hanno potuto fornire la «prova» della loro attività passata, il sesamo imposto dai britannici per rinnovare la licenza. L’accordo post-Brexit regola il diritto dei pescherecci Ue a pescare nelle acque britanniche. La tensione dura dagli anni ’70 e la Brexit ha solo aggiunto tensione sulle «quote», i Tac (tassi autorizzati di cattura).

Le acque britanniche sono più pescose, gli europei pescavano per 700 milioni di euro l’anno (contro 154 milioni di euro per i britannici nelle acque Ue). Ma il 73% del pescato britannico è esportato nella Ue, la Francia è il primo acquirente.

La tensione franco-britannica (ma anche con la Norvegia l’accordo con Londra è in alto mare) aggrava la crisi più generale del settore, che sta vivendo da anni una mutazione: i piccoli pescherecci sono travolti dai grandi operatori, in Gran Bretagna soprattutto, dove secondo un rapporto di Greenpeace i Tac sono concentrati in sole 25 società, ma la concentrazione minaccia anche la Francia. I pescatori britannici hanno votato in maggioranza per la Brexit, ma il settore ormai perde soldi.