«Ti accompagno nel dolore per questo atto vandalico e sono vicino a te e al tuo popolo». Così si è espresso papa Francesco in un messaggio autografo al cardinale di Managua Leopoldo Brenes dopo l’attentato alla cattedrale metropolitana. Bergoglio si era già riferito nell’Angelus di domenica in piazza San Pietro a quello che l’arcivescovo Brenes aveva definito fin da subito «un attentato terroristico pianificato nei dettagli». Venerdì scorso, secondo vari testimoni, uno sconosciuto incappucciato aveva lanciato una sorta di bomba molotov nella cattedrale mandando in fiamme la cappella e semidistruggendo un antico crocefisso di quattro secoli fa; per poi fuggire su un’auto che lo attendeva all’esterno.

Il porporato aveva smentito la versione della vicepresidente Rosario Murillo, consorte del  «fu» comandante guerrigliero nonché attuale presidente del Nicaragua Daniel Ortega, che nel suo programma radiofonico quotidiano assicurava essersi trattato di un incendio dovuto alla presenza di candele nella cappella. «Non c’erano né candele né tende o paramenti di alcun genere nella cappella», gli faceva eco Brenes.

L’atto intimidatorio segue la clamorosa profanazione nel marzo scorso nella stessa cattedrale, ad opera di un gruppo di seguaci orteguisti, dei funerali del sacerdote-poeta Ernesto Cardenal, ministro della cultura durante il decennio rivoluzionario sandinista e successivamente severo critico di colui che definì Ortega «un tiranno peggiore del dittatore Somoza».

I rapporti fra regime orteguista e chiesa cattolica si sono fatti particolarmente tesi durante e dopo la rivolta popolare pacifica dell’aprile 2018 innescata dagli studenti universitari e soffocata nel sangue da polizia e paramilitari con un saldo di almeno 350 morti. In quei tre mesi di scontri molte chiese si convertirono in ricoveri per feriti e manifestanti e furono invase da squadracce di picchiatori che, per esempio a Masaya, colpirono lo stesso cardinale Brenes e alcuni suoi collaboratori che avevano fatto da scudo ai manifestanti rifugiatisi nel tempio.

Le minacce a religiosi e i vandalismi sono proseguite un po’ in tutto il paese. E nei giorni precedenti l’incendio nella cappella il regime orteguista aveva preso male l’annuncio del cardinale Brenes di sospendere la storica processione religiosa prevista per il giorno di santo Domingo, patrono della capitale, come misura di precauzione nel pieno del contagio per il Covid 19. Una ricorrenza che l’altrettanto cattolicissimo governo di Ortega, come in altre circostanze, intenderebbe invece festeggiare per l’intera prima decade di agosto, confermando l’irresponsabile linea fin qui seguita di ignorare la pandemia del coronavirus.

Durante il decennio rivoluzionario dell’80 i rapporti stato-chiesa istituzionale erano stati dei peggiori. Ma Daniel Ortega, in vista delle elezioni del 2007 che lo avrebbero reinsediato alla guida del paese, per ingraziarsi il voto cattolico si era fatto risposare nella cattedrale con Rosario Murillo dall’allora cardinale Obanbo y Bravo, storicamente il più grande nemico interno durante l’epoca rivoluzionaria, sostenuto dall’allora presidente Usa Ronald Reagan. Ortega, una volta eletto lo contraccambiò decretando una legge che vietava da quel giorno l’aborto in Nicaragua, vigente da oltre un secolo in caso di violazione o di pericolo di vita della madre.

Fu l’esordio del nuovo corso di Daniel Ortega, all’insegna dello slogan «Nicaragua socialista, cristiana e solidale».

Obando y Bravo, nominato cardinale nel 1985 da papa Wojtyla e scomparso ultranovantenne un paio d’anni fa, era stato poi avvicendato nel 2014 come porporato per scelta di papa Bergoglio dall’attuale mons. Brenes. Il quale a sua volta aveva tentato una mediazione fra governo e rivoltosi nel 2018; ritirandosi poi dal tentativo di conciliazione nel quale si sollecitavano processi per le violazioni dei diritti umani durante la rivolta e la realizzazione di una riforma elettorale che garantisse elezioni anticipate libere e democratiche.