Una storia peculiare, un attraversamento costante tra lingue e culture: ripudio, recupero e cura; sentimenti e avventure raccolte nel libro di Silvia Calamandrei Attraverso lo specchio, Cina andate e ritorni (Edizioni di storia e letteratura, pp 176, euro 18). L’autrice si ritrova a Pechino negli anni ’50: è nipote di Piero Calamandrei, che fu a capo di una delegazione culturale italiana nel 1955 in Cina, di cui poi curerà archivio e pubblicazioni. E figlia di Franco e Maria Teresa Regard, corrispondenti dalla Cina per L’Unità, Nuovo Corriere e Noi Donne: con loro Silvia arriva a Pechino nel 1953, a soli quattro anni dalla nascita della Repubblica popolare: il Pci guarda a Mosca, ma è a Pechino che pare germogliare qualcosa di nuovo, di insolito. Si realizza il comunismo o insomma quanto di più vicino al comunismo si potesse immaginare.

LA GEOGRAFIA CULTURALE di Silvia Calamandrei è quella di un’isola stramba, la cui percezione è affidata a un diario, con il quale impara a scrivere in italiano, non senza sorprese: «Da buon educatore, mio padre mi fa scrivere lettere e articoli, finalizzati a una fruizione specifica; intrattengo dunque corrispondenze con bambini italiani, ovviamente nell’area comunista dei lettori del settimanale Il Pioniere, all’epoca diretto da Gianni Rodari. Nel numero 15 dell’aprile del 1956 c’è una pagina intitolata Messaggi dalla Cina con una mia lettera che invita a scrivermi a Pechino». Alcuni degli appunti di quei diari saranno ritrovati solo anni dopo, acquistati a Porta Portese e riconsegnati alla legittima proprietaria.

Da quel ritrovamento parte il viaggio letterario di Silvia Calamandrei grazie al quale ci consegna la Cina post rivoluzionaria, quella che precede la morte di Mao, quella post 1989 e infine l’attuale, incrociandola con i suoi viaggi, con la sua vita personale (la scelta di tornare in Cina lasciando un figlio in Italia alle cure del padre), i tentativi di portare sempre con sé la Cina all’interno di una riflessione su quello che Pechino aveva rappresentato, e che costituisce un affresco collettivo dell’epoca, costituito da dubbi, fratture, sonori schiaffi della storia e la costante ricerca di trovare un bandolo. Figurarsi se in questa danza ci finisce la propria vita.

IL LIBRO È CADENZATO anche da fotografie d’epoca intense, come quella nella quale Silvia è unica occidentale tra decine di bambini cinesi: sguardo severo e più maturo della sua età. Già solo arrivare a Pechino, del resto, all’epoca era un’avventura, passando per Vienna, Praga, Mosca e Transiberiana (e una sosta a Mosca con tanto di privilegio di assistere a un balletto al Bolshoi). E poi Pechino, dove il lavoro dei corrispondenti, e la vita, non era certo agevole.
Nelle pagine emerge tutto il patimento di Franco (e l’animosità di Maria Teresa) nella relazione, complicata e affidata a un telegrafo e a un tot di parole disponibili, in quanto comprate al mese, con le redazioni italiane.

Infine, il ritorno e l’inizio di quell’attraversamento che porterà Silvia Calamandrei più volte in Cina per assaporarne i cambiamenti, interrogare la propria percezione e quella del tempo nei confronti di questo immenso mistero. E riecheggiano nomi, Maria Rita Masci, Alessandra Lavagnino, Paola Paderni, Edoarda Masi e Renata Pisu. E intanto l’Italia cambia, la politica cambia e cambia anche la Cina e cambiano i pensieri sulla Cina. E rimangono amicizie, con le loro sagge inclinazioni. Come quella di Yang Jiang (di cui Silvia Calamandrei nel ’66, per Einaudi, tradusse Il Tè dell’oblio) che all’amica consiglia di alleggerirsi nel viaggio verso l’Occidente perché «è ora di decidersi a fare l’inventario di tutte le cose che mi porto ancora addosso».