Ossessioni è un bel titolo per un festival di musica. Come spiega l’ideatore della rassegna, Donato D’Antonio, si tratta di avere l’ossessione della contemporaneità. Il sottotitolo è ancora più attraente: Concetti sonori per menti libere. Ma, sia chiaro: queste serate al Museo Zauli faentino, un posto a modo suo underground, non espongono ossessioni tenebrose o angosciose. La leggerezza è in primo piano.

Agnese Toniutti è una pianista anti-virtuosa. Prende il John Cage di pagine note e ce lo rivela. Non eravamo abituati a pensarlo in questo modo. Che bello sentire Suite for Toy Piano (1948) ben scandita, quasi un esercizio didattico ma proprio per questo molto «secondo Cage» (l’uomo che detestava la parola espressione). Un’arguzia che suona inedita in quelle scalette semplici che creano un’atmosfera di soave straniamento. Lo strumento questa volta è un giocattolo amabile e impegnativo. E i dieci brani da Sonatas and Interludes (1946-’48) per piano preparato ci arrivano come musica particolarmente radicale. A tratti i suoni «attutiti» e «deformati» hanno un che di spettrale e alla fine capiamo che stiamo ascoltando un’indagine sui corpi cyborg dei suoni.

Toniutti autrice e performer si inventa un Omaggio a Indeterminacy che consiste in letture di tre «vocalisti» scelti a caso tra il pubblico di pagine da interviste a Cage e di storielle zen tra quelle che lui preferiva, più radi suoni improvvisati sulle corde del pianoforte. Piacevole cerimonia. Viene lasciato Cage per incontrare un Tan Dun cageano. C-A-G-E Fingering for piano (1993) è divertente. Il compositore cinese-americano (prossimo Leone d’oro alla Biennale Musica) fa il verso a Cage e ci mette un po’ del suo orientalismo. Ha buon gioco nel trovare convergenze tra il simil-Cage e l’evocazione di musiche di corte dell’antica Cina. La pianista evita i troppi colori, che magari Tan Dun, gran ruffiano, si aspetterebbe. Conclude il concerto con il vero Cage del falso melodioso e falso pre-ambient In a landscape (1948). Interprete pacata, quasi matematica, e musica che ci arriva nuovissima.

Matteo Ramon Arevalos potrebbe essere considerato l’opposto di Toniutti. Tutti e due grandi pensatori, s’intende. Ma lui nella serata finale del festival non si tira indietro se serve sfoggiare virtuosismo. Se serve. Come in Novelletta firmata Sylvano Bussotti nel 1974 ma quasi tutta di Arevalos stesso visto che si tratta di una partitura con sommarie indicazioni e totale libertà di improvvisazione per il pianista. Spettacolare e sapiente. Questo brano di Bussotti-Arevalos è ormai un classico (sempre in divenire) dell’action music e della musica da vedere. All’inizio prodigi di bacchette felpate sulle corde con sequenze free tempestose di primissima qualità. Poi la magia delle miriadi di palline da ping-pong che sulle corde danzano, suonano intrecci irrispettosi e rimbalzano dentro e fuori lo strumento.

Alla fine Arevalos superstar sarà circondato da una vera folla di adoratori in cerca di autografi sulle palline recuperate in sala. Ma prima suona con commozione misurata l’immenso Morton Feldman di Palais de Mari (1986). Un Feldman languido, malinconico (ma dissonante) e soprattutto mirabile costruttore di una «musica infinita». Prima introduce a una piccola storia del pianoforte preparato con Le Piège de Méduse (1913) di Erik Satie, Aeolian Harp (1923) di Henry Cowell, Bacchanale (1938) di John Cage (nel quale offre un avvio vorticoso, proprio un’idea della città meccanica e frenetica). Prima rende persino lussureggiante Per Piano 2 (1983) di un Fausto Razzi erede liberissimo delle neoavanguardie.