Su uno sfondo opulento e scintillante come la vetrina di un negozio di Tiffany in Dubai, il novantesimo Academy Award ha celebrato l’amplesso tra un anfibio mangiagatti e una donna delle pulizie sorda, il Messico, l’inclusività, l’assenza di Harvey Weinstein, la classe intramontabile e affilata di certa aristocrazia hollywoodiana (Eve Marie Saint, Jane Fonda, Helen Mirren, Jodie Foster con le stampelle, il ritorno di Warren Beatty e Fayne Dunaway), lo humor fresco e intelligente di nuovi arrivati come Lupita Nyongo e Kumali Nanjiani, alcuni veterani snobbati da troppo tempo (James Ivory, Gary Oldman, Roger Deakins) e, prevedibilmente, se stesso.

Non esente  ma fortunatamente meno dominato dall’insopportabile senso di superiorità morale che ha afflitto i Golden Globes (sfoggio di alta moda in nero cornacchia, con le vittime di abuso portate al braccio come borsette e discorsi autocompiaciuti fino alla nausea), l’Oscar di quest’anno, condotto con efficienza e senza troppe ambizioni da Jimmy Kimmel, ha cercato di navigare in un equilibrio tra impegno e autoironia, sfarzo iperbolico e un educato bon ton, rivendicazioni d’élite e aperture al grande pubblico – purtroppo simboleggiate dall’infelice incursione a sorpresa in una sala cinematografica adiacente dove degli ignari spettatori stavano guardando una preview del nuovo film di Ava Du Vernay (per la serie: siamo inclusivi+viva la Disney).

Ancor meno felice della distribuzione di hot dog e snack fatta dalle star, l’altro ramo d’ulivo all’ «americano medio» (probabilmente sintonizzato altrove – i rating della serata sono tra i più bassi della storia) : un montage di film di guerra in omaggio alle truppe, così immotivato che faceva l’effetto della versione liberal della parata militare auspicata da Trump.
Quando, dopo quasi quattro ore, il grande piroscafo della serata ha attraccato al molo d’arrivo, è stato il maggior vincitore dell’Oscar 2018, Guillermo Del Toro, a offrire il ringraziamento più bello, ricordando che il cinema –un’arte che più di altre ha il potere di cancellare «le linee nella sabbia»- può e deve essere anche una forza per cambiare la realtà.

La meritata vittoria di Del Toro (4 statuette: miglior film, miglior regista, miglior colonna sonora e scenografia), come l’Oscar per la sceneggiatura originale di Get Out (che è anche un riconoscimento al rilancio dell’horror d’autore promosso dal produttore Jason Blum) è infatti la vittoria di un’idea di cinema e d’immaginario più esuberante, giocosa, ardita, visivamente curiosa e politicamente sovversiva di quella riflessa in titoli che lavorano su analoghi sistemi di valori ma «alla lettera» e in modo manipolatorio, come Tre manifesti a Ebbing, Missouri (due Oscar – miglior attrice a Frances McDormand e miglior non protagonista a Sam Rockwell) e soprattutto Lady Bird.

Promossa dal distributore A24, con la stessa spregiudicatezza che aveva marcato la campagna Oscar di Moonlight, la commedia coming of age di Greta Gerwig non è riuscita a far abbastanza presa sulla sindrome #metoo/Time’s Up da conquistare una statuetta –il che è un bene, visto che l’unica donna regista che –insieme a Varda- quest’anno meritava di essere agli Oscar, Kathryn Bigelow, ha partecipato alla serata solo in uno spot pubblicitario della Rolex. Si sarebbe voluto qualcosa di più per Luca Guadagnino (Call Me By Your Name ha vinto per la miglior sceneggiature non originale), un autore che, come Del Toro, lavora sulla sensualità del cinema, sulla libertà, la trasgressione e la bellezza del linguaggio per immagini, piuttosto che sui su aspetti più prosaici.

E, in effetti, il premio di miglior attore a Gary Oldman (quasi irriconoscibile dietro al make up) –a paragone con le interpretazioni di Timothee Chalamet e Daniel Kuluuya- sembra più un riconoscimento alla carriera che altro. Nel ringraziamento meno bon ton della maratona notturna Frances McDormand ha spezzato una lancia a favore dell’anima hooligan («anche se ci ripuliamo bene»), dissacrante, degli artisti, e dell’istituzione di una clausola contrattuale che esiga l’uguaglianza numerica e finanziaria.

Tra i film stranieri, nulla hanno potuto i concorrenti contro la macchina promozionale Sony Classics e l’orgoglio transgender di A Fantastic Woman, di Sebastian Lelio. L’altra grande macchina da guerra di questo momento, Netflix, ha vinto l’Oscar del documentario con Icarus, contro il favorito Faces Places, di Agnes Varda. Senza sorprese, ma da festeggiare, la vittoria della Pixar, per il miglior film d’animazione e per la migliore canzone. Come The Shape of Water, Coco è un tributo al richiamo del South of the Border e all’immaginario fantastico/dark. I loro volti visibili per un attimo nel montage dedicato ai necrologi del 2017, Jonathan Demme e George Romero avevano di che sorridere.