Il 5 dicembre 1520, a Carrara, viene rogato il testamento di uno scultore spagnolo, Bartolomé Ordoñez. In quell’atto Ordoñez ricorda come suo socio «Diego Siloe», cioè lo scultore, anch’egli iberico, Diego de Siloe. In questo atto ufficiale e un po’ freddo è registrata una delle accoppiate più interessanti dell’arte del Cinquecento. I due scultori furono, in effetti, «soci»: assieme – e con l’aiuto di altri scultori e scalpellini – realizzarono quel capolavoro che è la Cappella Caracciolo di Vico in San Giovanni a Carbonara a Napoli. E proprio a Napoli i due lasciarono molte testimonianze della loro attività nel secondo decennio del Cinquecento.
Le vicende di questi due artisti si dipanano tra la Spagna e l’Italia, attraverso quel Mediterraneo che, più che dividere, univa, e grazie ai legami commerciali (ma anche politici e culturali) che rinsaldavano i contatti tra le varie città italiane e la penisola iberica. Partiti da Burgos, in Castiglia, i due scultori ebbero percorsi e sorti diverse, con probabili transiti anche a Firenze e Roma, dato il livello di aggiornamento sui capisaldi della «maniera moderna» che le loro opere napoletane dichiarano. Dovettero rientrare in Spagna in momenti non troppo distanti, sullo scorcio degli anni dieci del Cinquecento: Ordoñez a Barcellona, dove è documentato dal 1517, e dove, oltre a sposarsi, avrebbe contribuito alla decorazione scultorea della Cattedrale; de Siloe a Burgos, dal 1519, dove risiedeva la corte spagnola per la quale sarebbe divenuto uno dei principali artisti.
Quello della ricordata cappella di Caracciolo di Vico è uno dei grandi episodi architettonici e decorativi della Napoli cinquecentesca, quando, col passaggio dalla dinastia aragonese al nuovo regno di Ferdinando il Cattolico, le famiglie nobiliari si impegnarono in vaste campagne edilizie volte a rinsaldare la propria immagine sociale. Una cappella grandiosa, quella voluta da Galeazzo Caracciolo e affidata alla realizzazione di Ordoñez e de Siloe. A partire dal portale esterno, riccamente decorato con gli scudi araldici della famiglia, per arrivare all’interno, dove immediatamente si resta folgorati dal meraviglioso altare marmoreo, corredato di una grandiosa pala d’altare, anch’essa di candido marmo.
È grazie al nuovo libro di Riccardo Naldi Bartolmé Ordoñez e Diego de Siloe Due scultori spagnoli a Napoli agli inizi del Cinquecento (arte’m, pp. 437, 325 ill., euro 54,00) che è possibile seguire da vicino l’impresa. Nel quarto capitolo del volume, infatti, Naldi offre al lettore un’attenta analisi delle varie componenti di quel «manifesto marmoreo dell’umanesimo religioso», come lo definisce, scandagliandone ogni aspetto, dalle decorazioni del portale sino alla superba pala marmorea scolpita da Ordoñez e raffigurante l’Adorazione dei Magi, con la sua trama di richiami all’Antico e ad alcune delle opere più ‘moderne’ allora disponibili, le Adorazioni dei Magi realizzate sia da Leonardo da Vinci, sia da Filippino Lippi: dunque, un linguaggio aggiornatissimo sugli esiti del Rinascimento maturo. Non a caso, nei suoi Dialoghi in Roma del 1548, Francisco de Hollanda avrebbe ricordato lo scultore spagnolo proprio per la maestria nella creazione dei bassorilievi. Unico altro artista a essere elogiato per questa capacità è Donatello, e già questo accostamento deve far riflettere.
A de Siloe, e al suo linguaggio più classicheggiante, sono attribuite altre zone dell’altare, come il sublime Cristo morto, tutto realizzato in bassissimo rilievo e nel quale aleggiano le memorie di modelli pittorici come la Pietà di Viterbo di Sebastiano del Piombo. Come spesso accade nei cantieri scultorei, i lavori vengono suddivisi e affidati a diversi artisti: così c’è spazio anche per Girolamo Santacroce e per il suo San Giovanni Battista – a sinistra dell’Adorazione di Ordoñez –, con i suoi tratti smunti e aguzzi.
È attraverso lo strumento più proprio del mestiere di storico dell’arte, e cioè la lettura delle caratteristiche di stile, che Naldi accompagna il lettore lungo una serrata analisi di questo complesso, composito e bellissimo capolavoro. Anche perché, al di là di pochissimi appigli documentari, di questi due grandi scultori si sa davvero pochissimo. Qualche notizia la si ricava da alcuni documenti spagnoli. Ma sono, di fatto, briciole. Solo attraverso un’autopsia delle opere, dunque, è possibile ricostruire i riferimenti, i modelli, la cultura di Ordoñez e de Siloe. Dopo anni di studio e di ricerca (citiamo il libro di Francesco Abbate La scultura napoletana del Cinquecento, Donzelli 1992), il volume si pone come un momento di ricapitolazione ma, nonostante la mole, conserva un dettato di grande efficacia e godibilità.
Anche le vicende spagnole dei due scultori entrano in parte nel libro – in particolare, nel sesto capitolo dedicato alle imprese di Ordoñez nella cattedrale di Barcellona sul 1517, e nel settimo, che si concentra su una scultura di San Sebastiano di de Siloe. Ma quello di Naldi è, di fatto, uno sguardo concentrato a seguire i due «soci» nelle loro creazioni napoletane. In questo modo, quel breve ma ricchissimo tratto delle loro carriere ne esce illuminato e come ‘rinfrescato’, grazie a una stringente narrazione condotta sulle opere e sui nodi critici che sollevano.
Un compito reso più facile dalle stupende illustrazioni che corredano il volume. Realizzate da Luciano e Marco Pedicini, le fotografie non sono un semplice apparato che si giustappone al testo. Tutt’altro: esse costituiscono una narrazione visiva parallela a quella delle parole, sono l’ossatura indispensabile di qualunque ‘discorso’ a proposito delle opere. Gli insiemi dei complessi monumenti sono affiancati da decine di particolari e di illuminanti fotografie di confronto. Quella di questi scultori spagnoli in Italia è una vicenda che intreccia anche le vicende di alcuni artisti iberici presenti nella Penisola suppergiù negli stessi anni, e cioè Alonso Berruguete e Pedro Machuca, vicini a Michelangelo e legati in modo pungente alle sorti della «maniera moderna» e della sua diffusione in Italia e in Spagna.
Ma non si può che concordare con quanto Naldi scrive, alla fine del primo capitolo del volume, riguardo alla necessità di far conoscere a un pubblico sempre più ampio le opere della scultura napoletana del Cinquecento, in modo da attivare quei circuiti virtuosi di tutela – molte opere giacciono in chiese chiuse e inaccessibili, o necessitano di restauri – che permettano di accostarsi con nuova consapevolezza a questo capitolo sublime dell’antica arte italiana.