Editoriale

Nucleare iraniano, una svolta ma simbolica

Dopo 23 mesi di negoziati, l’accordo di Vienna sul nucleare iraniano è la vittoria dei due presidenti, l’americano Barack Obama e l’iraniano Hassan Rohani. Obama insiste naturalmente rassicurante con Israele, […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 15 luglio 2015

Dopo 23 mesi di negoziati, l’accordo di Vienna sul nucleare iraniano è la vittoria dei due presidenti, l’americano Barack Obama e l’iraniano Hassan Rohani. Obama insiste naturalmente rassicurante con Israele, sul nodo della verifica continua dei patti; ma stavolta fa sapere che, di fronte alla probabile opposizione dei Repubblicani, porrà il suo veto. E Rohani per la prima volta grida con gioia che sono finite le sanzioni per Tehran, comprese quelle finanziarie, bancarie, sui trasporti e sui commerci. Da oggi in poi nell’angolo resta Israele che con il premier Benjamin Netayahu assicura che non rispetterà l’accordo, che favorisce una «nuova superpotenza nucleare» ed è la «resa all’asse del male».

Perseguito dal gruppo de 5+1 (Usa, la Russia impegnata da tempo, Cina, Gran Bretagna e Francia: le potenze nucleari più il coinvolgimento della Germania), vede la realizzazione di una intesa che, vista la dinamica di guerra ininterrotta innescata anche dall’Occidente in Medio Oriente, tenta di andare contro la tendenza dominante. Anche perché, smarcando dai diktat israeliano, tratta con l’Iran, l’ex «stato canaglia» ormai diventato il principale alleato contro il Califfato. E inoltre realizza il suo annuncio storico, all’Università del Cairo nel 2009, sul diritto dell’Iran al nucleare civile.

È una svolta. Ma in concreto non si scalfisce la realtà della rincorsa al nucleare nel mondo. Infatti non meno paesi mostrano di aspirare al nucleare per avviare l’armamento atomico. Perché, mentre finora a Tehran, che non aveva il nucleare e aveva firmato il Trattato di non proliferazione, veniva interdetto anche il nucleare civile, i Paesi nucleari come Francia e Gran Bretagna hanno avviato contratti per il nucleare civile con molti paesi del Medio Oriente; perché l’Arabia saudita, che ora correrà a dotarsi del suo nucleare, sta finanziando l’atomica del Pakistan; e soprattutto perché Israele, che non ha firmato il Trattato di non proliferazione, manterrà e svilupperà le sue dotazioni atomiche (stimate dalle 200 alle 300 testate). Ecco il grande assente, ora isolato. Che fa del progetto di un Medio Oriente denuclearizzato nient’altro che un sogno.

«Oggi il nostro mondo è più sicuro», ha dichiarato Federica Mogherini, Mister Pesc euforica ma assai marginale nella riuscita del patto. Peccato che proprio nelle stesse ore arrivava dagli Stati uniti un altro annuncio: «La U.S. Air Force e la National Nuclear Security Administration hanno completato, nel poligono di Tonopah in Nevada, il primo test in volo della bomba nucleare B61-12». Quella che sostituirà la B61, la «nostra» bomba nucleare Usa stoccata ad Aviano e Ghedi con altre 70-90, parte di un arsenale di almeno 200 dislocate in tutta Europa. Insomma, lo spettro della guerra atomica resta. Per la Federazione degli scienziati americani, il numero totale delle testate nucleari nel mondo è di 16.300, di cui 4.350 pronte al lancio. E la corsa prosegue e si ammoderna. Per questo la lancetta dell’«Orologio dell’apocalisse», il segnatempo simbolico che sul «Bulletin of the Atomic Scientists» indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra atomica, è stata spostata da 5 a mezzanotte nel 2012 a 3 a mezzanotte nel 2015. Lo stesso livello del 1984 in piena guerra fredda.

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