«The city of nowhere in Michigan», la città di nessun luogo in Michigan: così il regista Angelo Madsen Minax chiama l’ambientazione della sua storia – la cittadina in cui è nato e cresciuto – di cui non è tanto importante sapere il nome quanto la sua collocazione lungo il 45esimo parallelo a metà strada fra il Polo Nord e l’equatore. Come se il suo essere situata in mezzo al mondo avesse in qualche modo un segreto legame con le risposte di cui è in cerca, su se stesso e la sua famiglia.

IL PROGETTO di North by Current, racconta lo stesso Minax nel documentario (nella selezione di Panorama) era iniziato come una denuncia di un sistema penale «guasto» che ha condannato la sua famiglia ad anni di dolore: quando la sorella del regista Jesse aveva trovato la sua bimba, Kalla, morta nella culla, lei e il marito David erano stati accusati di omicidio e maltrattamenti e lui aveva passato due anni dentro e fuori dal carcere. Una nuova perizia sul corpo della bambina li scagiona nel 2015: l’anno in cui Minax torna a casa per iniziare a raccontare.

North by Current è però tutt’altro rispetto a ciò che aveva immaginato di filmare: il suo rapporto con i familiari – i genitori, Jesse, David e i quattro bambini che mettono al mondo dopo la morte di Kalla senza mai fermarsi – la sua educazione religiosa in una famiglia di mormoni; i paesaggi nevosi della sua piccola città operaia in mezzo al nulla, che aveva lasciato da tempo, prendono il sopravvento. Il colpevole errore giudiziario diventa solo un particolare di un film che interroga l’identità – la propria di persona transgender e quella dei propri cari anch’essa in trasformazione – la natura dei rapporti, le pressioni di un mondo ostile fatto a misura del privilegio da cui il suo nucleo familiare è del tutto escluso. Attraverso gli home movies e le immagini della sua infanzia, quando ancora si chiamava Angela e trattava «con crudeltà» la sorella Jesse – un senso di colpa sempre rinnovato dalla fragilità e dal dolore incessante della sorella – , e i cinque anni di materiali girati con i suoi familiari fino al 2020, Minax compone il ritratto, necessariamente visto e raccontato in prima persona, di una trasformazione.

DEI NIPOTINI che crescono, dei genitori ferventi mormoni che riescono a mettere in discussione la propria fede laddove nega l’identità transgender del figlio e il loro amore per lui – dopo che in una sequenza terribile all’inizio del percorso del film gli avevano detto di aver dovuto anche loro elaborare un lutto per aver perso una figlia, diventata uomo. La trasformazione anche della sorella Jesse, che riesce a nominare la ragione per cui si era spaccata i denti – non una caduta nella doccia come cerca di sostenere davanti alla telecamera del fratello dopo che le hanno impiantato delle protesi, ma la violenza del marito.

INTESSENDO un dialogo con una bambina immaginaria che è più il se stesso da piccolo che la nipotina scomparsa, Minax trova delle risposte, una strada verso il futuro, ma senza chiudere il cerchio di una narrazione destinata a rimanere aperta, dolorosa, imperfetta, ingiusta come la convinzione che i bambini debbano continuare a nascere senza sosta per dare un corpo alle anime in attesa di entrare nel mondo – dove il destino è di non trovare mai pace.