Ridurre il gap di genere e rallentare il calo demografico. E’ con questo obiettivo in mente che lo scorso 20 dicembre il parlamento cinese ha presentato una revisione della legge sulla protezione dei diritti delle donne, introdotta per la prima volta trent’anni fa. Le novità spaziano da una maggiore tutela sul posto di lavoro a una definizione più chiara del concetto di molestia sessuale, ora esteso a includere qualsiasi commento con connotazioni sessuali e comportamento inappropriato. Compreso l’invio di immagini sessualmente esplicite o l’offerta di benefici in cambio di prestazioni sessuali.

La bozza affronta anche il tema della violenza psicologica, in particolare il fenomeno degli “artisti del rimorchio” (o pick-up artist), importato dagli Stati uniti, che prevede l’utilizzo della manipolazione emotiva per sedurre e umiliare.

E’ dal 2015, anno in cui è stata approvata la prima normativa contro le violenze domestiche, che la questione femminile è in cima all’agenda politica cinese. Nel bene e nel male, il movimento #metoo sembra aver contribuito a mantenere alta l’attenzione sul tema. Sembra perché da Pechino continuano ad arrivare segnali contrastanti.
Mentre i legislatori promettono maggiore tutela, anche una volta potenziata la legge prevede il solito approccio top-down: bandito l’associazionismo e il dialogo con la società civile, tutelare i diritti delle donne resta compito del Partito-Stato. Solo così – pensano i leader – è possibile prevenire che le rivendicazioni femminili incrinino gli equilibri sociali, sfociando nel caos. Più volte la stampa ufficiale ha accusato esplicitamente il #metoo di fomentare “una guerra dei generi” su impulso di “forze anti-cinesi” per sovvertire il regime cinese. Una posizione che raccoglie consensi tra i leoni da tastiera. In rete le vittime di abusi sessuali si trovano sempre più spesso nel fuoco incrociato di patrioti e conservatori; perlopiù uomini intenzionati a difendere i privilegi concessi da quella tradizione confuciana patriarcale, a cui oggi la leadership comunista, nazionalista più che mai, attinge a piene mani.

Come fa notare il progetto China Law Translate (CLT), l’approccio del governo cinese continua a mantenere una marcata vena sessista. Nel nuovo testo, la donna viene protetta nella sua “diversità” e debolezza innata, anziché da una posizione di parità di nascita. Questa eccezionalità femminile traspare tanto nel preambolo della legge, dove si parla di ruolo della donna nella “modernizzazione socialista”, quanto nella recente normativa sull’educazione familiare, che chiede alle donne di svolgere un “ruolo speciale nel promuovere i valori familiari del popolo cinese, stabilendo situazioni familiari positive”.

Non è casuale che l’attenzione dei policymaker cinesi per il gap di genere abbia coinciso con un allentamento della pianificazione familiare. Il calo demografico – ormai inevitabile e più imminente di quanto pronosticato – richiede misure per riportare la donna ai suoi doveri di moglie e madre, favorendone al contempo l’autosussistenza economica. Il portale della Corte Suprema del Popolo, Zhongguo Fayuan Wang, non nasconde sia effettivamente il crollo delle nascite ad aver reso necessario un rimaneggiamento delle vecchie disposizioni: “Nel 2019, il tasso di occupazione femminile nazionale è stato del 43,2%, un aumento sostanziale rispetto al passato. Come conciliare famiglia e carriera è diventato un problema che le donne moderne devono affrontare in ogni momento, soprattutto considerata l’introduzione della politica dei tre figli”, approvata ad agosto per rallentare l’invecchiamento della popolazione.

Nello specifico, l’emendamento vieta il licenziamento o la riduzione dello stipendio in caso di matrimonio, gravidanza, richiesta di congedo di maternità o allattamento sul posto di lavoro. Al contempo viene incoraggiata l’istituzione di meccanismi di prevenzione delle molestie negli uffici e nelle scuole. Migliorare l’ambiente professionale però non basta. Spesso infatti è tra le mura di casa che le donne subiscono le peggiori forme di discriminazione. Ed ecco che con la revisione viene introdotta la possibilità di chiedere un risarcimento per i lavori domestici effettuati durante i procedimenti di divorzio. Mossa anticipata dalla sentenza storica con cui lo scorso anno un tribunale cinese ha concesso a una donna 7.700 dollari di rimborso per il lavoro svolto durante il matrimonio.

Per quanto giusta, la strada da compiere è ancora lunga e accidentata. Sono diversi i punti a non convincere gli analisti, a partire dalla mancanza di punizioni chiare per i trasgressori. C’è chi poi sospetta sia solo l’ennesimo spreco di carta e inchiostro. Secondo gli esperti, infatti, molte delle nuove disposizioni erano già contenute nella legge sul lavoro; altre erano state aggiunte lo scorso anno con l’introduzione del primo codice civile della Cina comunista. Semplicemente non venivano applicate. Nulla o poco cambierà se non si interviene nella fase attuativa e nelle aule di giustizia, dove i processi intentati dalle vittime di molestie finiscono troppo spesso con un’assoluzione per mancanza di prove. Nel frattempo, restano da colmare voragini normative da tempo ignorate. Come il mancato riconoscimento dei diritti delle madri single, una zona grigia che in molte aree della Cina preclude alle donne non sposate l’assistenza alla maternità.