Ha lo sguardo orgoglioso e i modi diretti di chi non è disposto a deporre le armi nemmeno di fronte alla storia, di chi ha consacrato la sua intera esistenza alla passione della verità, attraverso la raccolta delle testimonianze e lo studio minuzioso dei meccanismi di costruzione e distruzione della memoria, senza cedere di un solo passo di fronte al rischio della sua manipolazione, del suo uso strumentale, preservando così la storia dal rischio di una «musealizzazione che serve soltanto a celebrare un falso presente», una falsa verità. E non ama nemmeno i titoli onorifici, Annette Wieviorka, una delle più note storiche francesi, direttrice del Cnrs (il Centro nazionale per la ricerca scientifica, la più prestigiosa istituzione accademica d’oltralpe) alla Sorbona di Parigi. «Quello di direttore o direttrice non è niente di meno e niente di più di un titolo come tanti altri, ma alla fine sono e resto sempre una docente che fa ricerca».
Autrice di numerosi saggi e volumi, tra i suoi lavori tradotti in italiano vanno ricordati L’era del testimone (Raffaello Cortina, 1999) e Auschwitz spiegato a mia figlia (Einaudi, 2014), Wieviorka è in Italia, ospite del Festival Filosofia di Modena, a cui ha partecipato per la prima volta – rispondendo al tema dell’edizione attuale – con una lezione incentrata sull’impegno per la verità storica attraverso la funzione della testimonianza.
«A prima vista, fare appello alla testimonianza nella ricostruzione della verità storica può sembrare una contraddizione – spiega – perché la testimonianza è in qualche modo priva di metri di valutazione e verifica dei dati, che sono tipici del lavoro dello storico».

Banalmente, le testimonianze possono anche essere false…
In un certo senso è così. E per quanto possa essere banale, si tratta di un problema storico molto rilevante, perché c’è il rischio sempre in atto che si possa costruire un patrimonio collettivo sulla base di una invenzione. Nella mia lezione al festival ho fatto riferimento ad alcuni esempi di falsa testimonianza, come quello di Binjamin Wilkomirski, scrittore svizzero che ha pubblicato un libro che ha riscosso molto successo (Frantumi. Un’infanzia 1939- 1948, Mondadori 1996). Vi ricostruiva i momenti sparsi di una ipotetica infanzia all’interno di Auschwitz, con una dovizia di particolari che rendeva la storia verosimile. Molto tempo dopo, però, si scoprì che l’autore non solo non era mai stato internato in un campo di concentramento nazista, ma non era nemmeno di provenienza ebraica. O ancora, posso citare il caso di Enric Marco, il sindacalista spagnolo che millantava di essere un sopravvissuto alla prigionia nazista per legittimare la sua credibilità dal punto di vista politico. La sua vicenda è stata ricostruita abilmente dallo scrittore Javier Cercas (L’impostore, Guanda, 2015).

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Ma è sempre possibile una verifica dei fatti, una loro corretta interpretazione?
È difficile, ma non si tratta di questo. Credo che non si debba nemmeno considerare il fatto in sé come un dato puramente oggettivo, direi quasi neutrale. Non ci si deve innamorare troppo dei fatti. L’amore che lo storico nutre per la verità non può essere ingenuo. Bisogna sempre tenere a mente che sui fatti agiscono delle distorsioni sociali e narrative, che spesso la memoria storica viene influenzata da fenomeni quali ad esempio il cinema, la narrativa, l’arte in generale. La memoria integra e sovrappone, rielabora quasi inconsciamente quel che noi esperiamo come semplici avvenimenti. È una sorta di ricodificazione simbolica, per mezzo di vari fattori, meccanismi narrativi e dispositivi ideologici, che sono assolutamente esterni ai fatti storici in quanto tali.

Può spiegarci meglio?
La cosa più importante è che quando noi ricordiamo, non diciamo semplicemente i fatti, ma ricostruiamo un filo logico al loro interno. Nel ricordo si cerca di restituire un senso a un insieme di oggetti sparsi e frammentati che, senza questa ricostruzione, una narrazione e riconfigurazione resterebbero s soltanto semplici fatti senza alcuna funzione storica, né una utilità reale per la comprensione di quello che è accaduto. Ciò che chiamiamo storia è essenzialmente il senso che noi diamo a questi fatti: è un qualcosa che vi poniamo noi, che aggiungiamo dall’esterno. Per questo motivo, le ricostruzioni storiche si trasformano, anche il senso di ciò che chiamiamo «memoria» cambia: ci sono ragioni psicologiche, o sociali, di cui abbiamo bisogno e di cui ci serviamo per dare un senso ai nostri ricordi. Un senso che sia utile non solo per noi ma anche per coloro a cui vogliamo affidare le nostre storie, la nostra memoria.

Questo però implica che la storia sia sempre sottoposta al rischio costante di manipolazioni ideologiche, a un suo uso retorico e politico…
Certo. E si tratta di un rischio sempre presente. Perché il lavoro dello storico non è un lavoro su cui ci si può affidare a ricostruzioni oggettive. Lo studioso ha pretese di oggettività nella misura in cui riesce a fornire interpretazioni plausibili, coerenti, o ancora meglio sensate, di una serie di fatti collegati fra loro. La storia assume un significato, un valore e quindi una sua servibilità per il presente, solo se ci appare qualcosa di sensato.
Occupandomi di Shoah, i rischi di andare incontro a distorsioni storiche sono sempre presenti, e non soltanto perché vi è il rischio di incorrere in false testimonianze, come ho accennato prima. Ma non si può essere nemmeno così ingenui da affidarsi solo ed esclusivamente alla storia depositata negli archivi, alle memorie catalogate nei registri ufficiali, perché archivi e registri sono spesso scritti da chi in quel momento deteneva il potere.

La storia è sempre il racconto dei vincitori…È d’accordo con questo assunto?
In parte è vero. Ma è sempre possibile evitare di commemorare un falso presente. Dal punto di vista metodologico, un modo è quello di non utilizzare una sola fonte, una unica testimonianza, e di raccogliere più dati possibili e confrontarli. In questo consiste, molto banalmente, il lavoro dello storico. Ma anche agendo con tali strumenti, il rischio di distorsione è in agguato. Bisogna saper guardare a quei rapporti spontanei che si creano con le persone, con i luoghi e gli spazi, con tutti quegli elementi che contribuiscono a fare della memoria non soltanto un semplice ricordo individuale ma qualcosa come un patrimonio storico collettivo. Si tratta, se vogliamo, di sapersi aprire a una fruizione libera della memoria.

Il testimone non finisce per rivestire un ruolo paradossale? Pensando alle testimonianze dei sopravvissuti dei campi di sterminio, si ha come la sensazione che nel ripetere di continuo la loro storia è come se, in un certo senso, non abbiano mai lasciato Auschwitz…
Comprendo cosa intende dire, e capisco benissimo il problema che solleva: perché ripetere sempre la stessa storia? Una volta, fecero la stessa domanda a un sopravvissuto all’Olocausto, chiedendo se non fosse troppo doloroso rievocare costantemente quella tragedia. E lui rispose con una tranquillità disarmante, dicendo che non era affatto doloroso, perché non era più il ragazzino di allora, di quando venne deportato: è come se stesse raccontando la storia di un altro. Che non significa rimuovere il passato, ma accoglierlo con consapevolezza e responsabilità.