All’inizio è stata Kiev. Dieci anni esatti dopo la rivoluzione arancione del 2004, l’attenzione mediatica si è concentrata fin da subito sulla Majdan (piazza in ucraino), termine con cui si è intesa tutta la parabola delle proteste sviluppatesi in Ucraina, fino all’attuale guerra civile in corso. Poco dopo il mancato accordo di associazione con l’Unione europea deciso da Yanukovich, migliaia di persone cominciarono a popolare le strade di Kiev, chiedendo più di ogni altra cosa la fine della corruzione nelle fila del governo e la correzione della scelta politico-economica effettuata dal presidente, finanziato da oligarchi e verso il quale neppure Putin ha mai dimostrati grandi sentimenti di amicizia (Yanukovich aveva intrecciato affari con oligarchi poco graditi al presidente russo).

Con il senno di poi, consentito dall’analizzare a posteriori la nascita dell’attuale crisi ucraina, potremmo sostenere che Yanukovich è finito nel consueto tritacarne storico del suo paese, ovvero ha dovuto fare i conti con una posizione geografica che pone l’Ucraina tra Russia ed Europa e una crisi economica, che ad un certo punto del 2013, sembrava potesse essere risolta solo da Putin. Il Cremlino non brilla per poesia e romanticismo e il patto era chiaro: noi vi diamo i soldi, ma voi rinunciate ad accordi con l’Unione europea. Il tutto nel sogno moscovita di un’unione euroasiatica con l’Ucraina grimaldello e cuscinetto anti Occidente. Il problema è che l’Ucraina è da sempre un paese percorso da desideri differenti: le regioni occidentali si sentono europee, quelle orientali, fondamentalmente, si considerano russe. I russi, a loro volta, considerano gli ucraini alla stregua di veri e propri russi.

L’attenzione mediatica internazionale si è posta dunque sulle prime manifestazioni popolari, fino alla conquista della piazza da parte delle frange più estreme, capaci di determinare militarmente lo scontro, fino a destituire l’ex presidente Yanukovich e avviare una rivoluzione che Mosca ha subito etichettato come un «colpo di Stato», specie perché supportata da Unione europea e con l’ambiguo sostengo di Nato e settori neocon statunitensi (con tanto di capo della Cia, presente a Kiev). Il crescendo di rilevanza di questi gruppi è stato sottovalutato dai media, rimasti ai primi vagiti della Majdan e questo provocherà uno dei tanti cortocircuiti informativi su quanto davvero è accaduto in Ucraina. Kiev, cuore di quella che un tempo era la Rus’ (Kievskaja Rus’ Stato monarchico medievale, considerato ancora oggi il cuore dell’anima e dello spirito russo, capace di scatenare a Mosca la convinzione che russi e ucraini siano in fondo un unico grande popolo) e anima della ribellione, ha contagiato ben presto l’ovest del paese. Sulle barricate però non c’era più il popolo, con tutte le sue differenze, bensì i paramilitari di Settore Destro, gruppo neonazista, abile a sfruttare l’iniziale assenza di media e giornalisti e capace di organizzare un potente servizio di ufficio stampa, che ha finito per indirizzare sui binari congeniali la diffusione delle notizie.

Non è un caso che gli account Twitter di Svoboda, altro partito di estrema destra, che guadagnerà cinque ministeri nel governo uscito dalla rivolta, diventerà nel giro di pochi giorni una delle fonti più utilizzate in Occidente per la «diretta» della rivolta (una volta consumata la vittoria, sorgeranno specie nell’est del paese numerosi account e siti di controinformazione, capaci di porre seri dubbi su alcune ricostruzioni date per scontate dai quotidiani occidentali). Nelle notti di fine febbraio, quando la battaglia è imperversata per le strade di Kiev (le barricate e le tende sono state rimosse solo in questi giorni) le foto e le immagini del fumo e dei morti, cento, di cecchini mai identificati, hanno guadagnato la scena; ma la guerra che da lì a poco sarebbe arrivata, aveva già lanciato il suo sguardo verso mete letterarie, di un paese da sempre al centro di contenziosi tra l’est e l’ovest. Lo sguardo, fin da subito, nel momento in cui la Majdan vinceva la sua guerra, la prima, si è spostato in Crimea, per un prevedibile effetto domino della cacciata di Yanukovich e la proposta del nuovo esecutivo di abolire la lingua russa.

La penisola regalata all’Ucraina negli anni 50, luogo di conflitti, scontri storici e i Racconti di Sebastopoli di Tolstoj, è così planata al centro della scena. Nella sua opera Tolstoj presenta 4 romanzi in miniatura, capaci di unire la visionarietà del narratore al realismo del reporter di guerra, ponendosi apparentemente distanti da quanto scaturito dall’ucraino forse più noto, ovvero Gogol e i suoi Racconti di Pietroburgo. Come dimenticare il naso che sparisce e riappare su altri volti o il Cappotto, di cui Dostojevsky si dichiarò «figlio»? Racconti a specchio, che consentono un parallelo storico e letterario, tra una terra contrassegnata da filoni narrativi «magici», ma percorsa da scontri e guerre di natura epocale. Ci sono nomi e parole nei racconti di Sebastopoli, compreso l’utilizzo del termine «Mosca» a indicare i «soldati» (valido forse ancora oggi per molti ucraini delle regioni occidentali), che ricorrerano nel corso della crisi; città, luoghi, divenuti famosi per fatti contemporanei, vuoi uno scontro a fuoco, un rapimento di un dirigente politico, un omicidio misterioso di un militante dei gruppi neonazisti. E dopo la vittoria di Majdan, dunque è toccato alla Crimea, che ha rifiutato subito il nuovo esecutivo di Kiev, chiedendo – via referendum, dimostratosi un plebiscito – l’annessione alla Federazione russa. Operazione non certo complicata, dato che dopo la destituzione di Yanukovich, Putin aveva fatto approvare alla Duma un decreto per facilitare la futura annessione. E dalla Crimea, sempre più a est, si arriva alle zone orientali, Donetsk, Lugansk, Sloviansk, sfiorando Poltava, citata solo di passaggio in questa guerra attuale, ma non toccata da eventi rilevanti. Eppure è li, o quanto meno nell’oblast, la regione di Poltava, per la precisione a Velyki Sorocynci, dove è nato Gogol e dove un secolo prima Pietro il Grande ha costruito la sua aurea guerriera, la sua vittoria più importante, storica, da ricordare per un imperatore capace di circondarsi di mostri, nani e una sorta di «contro corte», nella quale Pietro si dilettava a impersonare ruoli secondari. A Poltava, in Ucraina, Pietro sconfisse Carlo XII di Svezia, ed eravamo nel 1709.

Da ovest a est, passando per la Crimea, fino a ritornarci, quasi. C’è un’altra città, ancora una volta contraddistinta da un fascino storico-letterario, a segnare uno dei momenti più intensi di questa crisi ucraina, Odessa. La città raccontata superbamente da Babel ne I racconti di Odessa, sei storie indimenticabili, con i suoi banditi e la sua vita meticcia, è stata al centro dell’accadimento ad ora più macabro e terribile di tutta la vicenda ucraina. Nel mezzo della crisi, nei primi giorni di maggio, ad Odessa sono state attaccate le tende di pacifici «filorussi», disarmati, che sostavano in protesta contro il governo di Kiev, ritenuto illegittimo, di fronte al palazzo dei sindacati. Nel corso del tempo sono emersi elementi in grado di rendere molto chiara la dinamica: gruppi di ultras e paramilitari neonazisti hanno attaccato i filorussi, che si sono rifugiati nell’adiacente palazzo dei sindacati. A quel punto l’«operazione» dei gruppi filo Majdan si è realizzata: l’edificio è stato preso di mira da molotov e spari; almeno 48 persone sono morte nel rogo, ma c’è il sospetto che siano molto di più le vittime e che molte di loro siano state finite a colpi di arma da fuoco. Si tratta dell’evento che più di altro ha rappresentato la guerra in Ucraina: il silenzio della stampa internazionale e la determinazione dell’esercito e gruppi paramilitari giunti in soccorso nel tentare di riunire, con le cannonate e i mortai, un paese che invece appare ormai – indissolubilmente – separato in due.