«Ma visti i buoni rapporti che ha con il governo libico, ministro riesce a convincere il premier Serraj a firmare almeno la convenzione di Ginevra e quella sui diritti dell’infanzia?». La domanda arriva nel bel mezzo della riunione convocata lunedì scorso alla Farnesina dal ministro Angelino Alfano con più di venti Ong italiane. Riunione voluta dal titolare degli Esteri per avviare il progetto del governo di coinvolgere in Libia le organizzazioni umanitarie con programmi di assistenza ai migranti e alla popolazione locale. La domanda, posta dai rappresentanti della Croce rossa e dell’ong Terre des Hommes, spiazza però Alfano: «Ricordatevi che situazione c’era in Libia solo un anno fa. Ogni cosa a suo tempo», è la risposta.

Parte in salita il progetto del governo di coinvolgere le ong italiane nelle gestione dei centri libici in cui sono detenuti i migranti. Un’esigenza nata per superare quelli che lo stesso Alfano, durante la riunione, ha definito dei «campi di prigionia» all’interno dei quali uomini, donne e bambini vivono in condizioni disumane. Sostituirsi ai libici non è però operazione semplice. La stessa Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati che presto potrebbe tornare nel paese nordafricano, starebbe incontrando infatti difficoltà per aprire un centro di transito a Tripoli. «Un edificio con capacità di mille persone, per riunire i rifugiati o i richiedenti asilo più vulnerabili per poi farli partire verso paesi terzi», ha spiegato pochi giorni fa il rappresentante dell’Unhcr in Libia, Roberto Mignone, alla commissione Diritti umani del Senato. L’accordo c’è, ma l’Unhcr reclama la massima autonomia nella gestione del centro e soprattutto vuole che ai libici sia chiaro che si tratterà di una struttura aperta e non di un luogo dal quale i migranti non potrebbero uscire. Due condizioni che starebbero rallentando notevolmente le trattative.
Condizioni, quelle poste dall’agenzia Onu, condivise in pieno dalle ong italiane, molte delle quali temono di finire col fare la foglia di fico coprendo, con la propria presenza, le violazioni dei diritti umani compiute dai libici. Per questo la firma delle due convenzioni internazionali da parte di Tripoli sarebbe una garanzia per avviare il lavoro. «E’ una precondizione indispensabile tanto quanto garantire la sicurezza degli operatori che dovessero decidere di recarsi in Libia, anche perché significherebbe che il governo libico si vuole rafforzare a livello internazionale», spiega il presidente di Terre des Hommes, Raffaele K. Salinari, per il quale «è difficile che Unhcr e Oim possano intervenire senza la copertura di quelle convenzioni».

Dubbi sull’operazione anche da parte di Msf. L’organizzazione – già attiva in Libia – non parteciperà al progetto del governo italiano del quale ha rifiutato anche i finanziamenti. «La convenzione di Ginevra – spiega Marco Bertotto, responsabile advocacy di Msf – sancisce che l’ingresso illegale in un paese per un rifugiato non rappresenta un reato. Ma non riconoscendola, per la Libia il rifugiato non esiste e considera tutti i migranti come irregolari da imprigionare nei centri. Mi sembra che qui si stiano facendo le cose al contrario: prima intrappoliamo le persone in Libia e poi ci chiediamo come liberarle».

Dubbi comuni a molte ong, alcune delle quali pur aderendo al progetto del governo preferirebbero lavorare su progetti rivolti alla popolazione libica piuttosto che nei centri dove i migranti sono detenuti.

Il governo intanto accelera i tempi. Dopo un primo bando realizzato nei mesi scorsi dall’ufficio di Tunisi dell’agenzia italiana per la cooperazione, adesso si sta lavorando al secondo bando al quale le ong interessate potranno partecipare con progetti mirati all’assistenza socio-sanitaria e all’educazione. «La speranza – spiegano alla Farnesina – è riuscire a concludere la fase preparatoria entro la fine di ottobre».