Ermellino è una ragazzina candida come la neve che sprofonda progressivamente in un bozzolo di isolamento nonostante l’apparenza di una vita normale. Gioca con gli amici e va a scuola, ma la sua mente, assente, scorrazza in solitudine tra bianchi campi invernali. La lontananza avvolge la bambina in una bolla, cristallizzandola in un gelo che non è vita né morte e infine facendola scomparire. L’apologo, che dà il titolo alla silloge dei 29 testi di Ermellino bianco e altri racconti (Casagrande, pp. 240, euro 19, traduzione di Maurizia Balmelli), è pienamente esemplificativo della scrittura di Noëlle Revaz sia per quanto riguarda i temi principali, sia, soprattutto, per le modalità di costruzione dei racconti: l’uso fiabesco della catacresi (per cui le espressioni figurali divengono realtà concreta, come la bolla di Ermellino); la frequentazione di una retorica conflittuale, divisa tra sottrazione (litote, ellissi, eufemismi) e accumulazione (elenchi, anafore); la densa stratificazione di piani allegorici dei testi, minuziosi origami dalle pieghe misteriose.

COME INTERPRETARE, in effetti, Le strade, in cui una città intera era terrorizzata all’idea di uscire dai propri confini urbani, poiché «non c’era niente che fermasse lo sguardo»? L’unico che usciva era un commerciante, ma prima «gli operai erigevano facciate intorno a ogni strada, il minimo sentiero veniva bordato di case, la campagna ne era coperta». Allegoria sociale, riguardante le geografie classiste di una città? Allegoria antropologica o epistemologica (l’esigenza umana di colonizzare l’ignoto per praticarlo)? Allegoria metaletteraria, che simboleggia, con i manufatti posticci delle facciate urbane, l’addentrarsi della scrittura in uno sconvolgente territorio oscuro?
La lingua sembra uno dei personaggi fondamentali (e forse il protagonista) tra una congerie di figure senza alcuna profondità psicologica, che paiono pure funzioni dell’enunciazione, al punto che in Marie tutti si chiamano allo stesso modo.

LA VIOLENZA CHE EROMPE spesso è tanto più spiazzante in quanto perpetrata da personaggi grotteschi, che assomigliano a cartonati mossi da chissà quale principio vitale. A simili attori (per esempio al nipote che uccide il nonno proprio come questo sopprimeva animali feriti per risparmiare loro sofferenze inutili, in Spintarella) non è possibile addebitare alcuna responsabilità morale, poiché ogni azione (e ogni relazione sociale, anche quelle fortemente «culturalizzate» della famiglia) sembra dipanarsi secondo leggi istintuali, naturali.
L’ingenuità infantile dei personaggi, assieme agli eventi meravigliosi, contribuisce ad evocare le atmosfere unheimlich delle fiabe «nere» di derivazione nordeuropea. Ma il perturbante di Revaz appare come raddoppiato e attinge a una profondità ancora più sconcertante: ne Le bambole sono proprio i fantocci ad essere turbati dai piccoli umani.
L’occhio della giovane in copertina (Betty, una tela di Gehrald Richter), allora, potrebbe essere proprio quello di un personaggio dei racconti, che restituisce, sgomento, lo sguardo inquisitorio del lettore.