Non è chiaro se i renziani si siano irritati più per l’ottimismo dell’esploratore Fico («esito positivo, dialogo avviato», ha detto all’uscita del colloquio con Mattarella). O più per quello del reggente Martina («Riconosciamo passi in avanti importanti, hanno chiuso il dialogo con la Lega»). O infine più per la sicumera di Di Maio: «Chiedo uno sforzo al Pd: non si può chiedere al M5S di cancellare le battaglie fatte; ho visto delle dichiarazioni in questi giorni, e non mi riferisco alla linea espressa dal segretario Martina».

Fatto sta che appena il presidente della Camera parla, si scatena lo scetticismo del pacchetto di mischia renziano. Vengono dettate dichiarazioni fra il sarcasmo e il fastidio: «Fico è felice dell’esito delle consultazioni? Se si accontenta così», dice Alessia Morani. E Andrea Marcucci: «Con la logica del fatto compiuto non si va da nessuna parte».

Renzi ormai lo ha fatto capire chiaramente: questo tavolo non s’ha da fare. «A una trattativa fatta così è contrario», spiega chi ci ha parlato ieri. Fatta così, cioè senza condizioni, è l’accusa a Martina. Dunque, è la convinzione, anche in direzione i giochi sono chiusi: la maggioranza necessaria per far passare il «no» è di 105 voti, i 117 renziani ortodossi basterebbero. Per non parlare dei gruppi parlamentari dove i renziani sono percentualmente stragrande maggioranza, grazie alle liste di fedelissimi compilate con lungimiranza da un segretario che capiva di essere prossimo alla sconfitta. Peraltro al Colle non è sfuggito un tweet del deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti, nel giorno in cui sembrava prendere quota l’ipotesi del sì al confronto con i 5 stelle: «Nel rispetto delle idee di tutti e del ruolo della direzione Pd, vorrei segnalare che siccome alla fine sono i parlamentari a doversi esprimere sulla fiducia al governo, qualsiasi decisione deve comunque passare anche nelle assemblee di gruppo».

Forno Pd chiuso, dunque, tavolo chiuso. Per ora. Perché Renzi sa che con il tempo anche i suoi non reggeranno al timore del ritorno al voto, possibilità non remota ormai anche per il Quirinale. Fedelissimi come Luca Lotti e Ettore Rosato ne discutono apertamente nei conversari riservati.

I renziani però sono certi che il pericolo non esiste perché dopo il voto del Friuli i 5 stelle riapriranno il «forno» della Lega. Leggono la conferma della tesi nelle parole di Di Maio verso Salvini: «Fa specie vedere che Berlusconi utilizzi tv e giornale per mandare velate minacce a Salvini, qualora decidesse di sganciarsi».

Ma se invece il governo gialloverde non andasse in buca, sarà Renzi ad ascoltare il Colle e le sue eventuali proposte.

Ma per ora l’ex segretario riesce a reggere il «fronte del no». Per questo la fatidica conta della direzione del 3 maggio, quella che rischierebbe di fotografare un partito comunque spaccato a metà, potrebbe sfumare. «Troveremo una sintesi», spiegano dal Nazareno. «In quella sede noi decideremo in maniera collettiva», dice anche Martina. Sapendo che la sconfitta ai punti della sua linea trattativista della quale si è messo a capo lo costringerebbe al passo indietro dalla reggenza. Seppellendo definitivamente ogni sua ambizione verso la segreteria. «Se Martina vuole salvaguardare l’unità deve ritornare sulle posizioni dopo il 4 marzo», spiegano i renziani.

A chiedere la trattativa nei termini impostati da Martina sono comunque in molti. Ieri è sceso in campo anche il presidente del Lazio Nicola Zingaretti: «Non mi fa paura discutere apertamente la scelta se accettare il confronto o meno con i 5 Stelle», «Il modo più eclatante per essere subalterni è diventare come loro; mutuare le loro forme, il loro modo di essere: come a volte sembra stia accadendo».

In molti, ma non abbastanza da ribaltare la linea dell’arrocco. Persino il ministro Orlando dice di non credere troppo al dialogo con i 5 stelle: «Sono per il confronto, ma non a prescindere, se non ci sono le condizioni politiche bisogna trarne le conseguenze». Il punto è che «se la direzione Pd dovesse valutare non percorribile il confronto dobbiamo anche cominciare a discutere su come ci prepariamo al confronto elettorale», ma in quel caso il Pd deve prepararsi a scegliere «chi dovrebbe guidare il partito». Cioè al congresso.