C’è un racconto di William Faulkner intitolato Autunno nel delta. Agli sgoccioli della sua lunga vita, il vecchio Ike McCaslin, protagonista della raccolta Scendi, Mosè e ultimo discendente di una famiglia di fondatori ottocenteschi, contempla la rovina ecologica intervenuta nell’ormai sconvolto e melmoso delta del Mississippi. Siamo negli anni trenta del Novecento e Ike, spintosi forzatamente molto a Sud rispetto alle sue incontaminate proprietà di un tempo, vive in una casupola a due passi da New Orleans, la mitizzata femme fatale del Golfo del Messico, meta vagheggiata per i colonizzatori dell’intero territorio. Fondata dai francesi, essa si imponeva allora come la metropoli esotica, libertina, poli-gergale, limacciosa, spugnosa e variopinta, multietnica dal sangue sospettosamente misto, rifugio per i bastardi mulatti di ricchi feudatari senza scrupoli, e capace, allora come ora, di esercitare strane malie.
Del ruolo calamitoso di New Orleans s’è accorta anche la californiana Joan Didion, la più perfezionista delle cronachiste del New Journalism della seconda metà del secolo scorso, la quale, oggi ottantaseienne, manda in libreria A Sud e a Ovest Pagine da un diario (il Saggiatore, prefazione di Nathaniel Rich, traduzione di Sara Sullam, pp. 119, € 17,00). Si tratta di un ripescaggio di appunti risalenti a oltre sessant’anni fa, in un periodo in cui Didion era impegnata su fronti più urgenti del panorama politico americano: proteste studentesche, campagne elettorali, delitti sensazionali. Fu allora, nel 1970, che per svago e curiosità si concesse un viaggio esplorativo a Sud, una parte del paese che conosceva poco e che istintivamente nella sua visione ella poneva in contrapposizione e al contempo in associazione con l’Ovest.
E aveva ragione. Non a caso, infatti, dopo la Guerra civile molti sbandati (inclusa la sua famiglia), volti al Pacifico per ricostruire una nuova vita, provenivano da un Sud disfatto dalla debacle subìta: «Avevo una teoria», confessa Didion nel 2006 alla «Paris Review», «se fossi riuscita a capire il Sud, avrei capito anche qualcosa della California, perché molti dei pionieri californiani venivano dal confine meridionale». Una teoria in apparenza un po’ strampalata, in quanto Sud e Ovest si sono sempre posti agli estremi della mappa statunitense. In arcigna attesa di una rivincita, il Sud si era crogiolato passivamente nella gloria del proprio passato confederale, rurale e schiavista, l’Ovest invece ha da sempre guardato verso futuri in prospettiva, attesi fiduciosamente con spavaldo ottimismo. Di New Orleans, Didion ricorda soprattutto «la sua densa ossessività, il suo assillo febbrile per la razza, la classe, la tradizione, lo stile», frenesie che si distanziano dai valori che l’etica della frontiera – ovvero del Manifest Destiny puntato a Ovest – «insegna ai propri figli a negare, a tacere deliberatamente» ma che a New Orleans dominano con «una crudeltà infantile e insieme innocente».
Quindi, un grande baratro separa le due geografie, eppure qualcosa di vero deve aver baluginato nell’intuizione di Didion e, al di là del caso singolare, e per altri versi sintomatico, di New Orleans, la possibile consonanza tra Sud e Ovest assilla la sua mente inquisitrice. Di conseguenza, nella focosa estate del 1970, eccola in viaggio verso la femme fatale, la città serrata e insondabile come un’ostrica cocciuta, città malefica e festosa, città madre del jazz, dove tutto può accadere (si pensi a una delle scene più allucinate di Easy Rider): si può, tutt’oggi (e si pensi di coté alla figlia di Al Bano e Romina) scomparire nel nulla, essere ingoiati dal limo, storditi dalla musica dei sassofoni del blues, confusi dalla parlata cajun, dopati dall’LSD, irretiti in faccende sporche, annacquati dai violenti uragani tipo Katrina, e ancora, ancora.
L’obiettivo di Didion, tuttavia, è meno spicciolo, meno cronachistico e meno da cartolina. Ella intende scansionare lo spirito sopito dell’ampia zona che dal Golfo, e la sua capitale, sale verso gli Stati razzisti del Mississippi e dell’Alabama, il «profondo Sud» del Ku Klux Clan, che in quel momento storico, turbato da scontri brutali, colonne di neri in marcia sotto la guida del «sogno» non violento di Martin Luther King, va appena trangugiando la concessione di una buona dose di diritti alla popolazione di colore (fine della segregazione, accesso all’istruzione, lavoro istituzionale), un atto mai perdonato dai Sudisti al concretamente visionario John F. Kennedy.
L’inizio del viaggio non è invitante. New Orleans in giugno «ha l’aria greve di sesso e morte, morte non violenta ma per decadimento, per eccessiva maturazione, per marciume, morte per annegamento. È un luogo fisicamente oscuro, oscuro come il negativo di una fotografia, come una radiografia». Nella «liquidità ipnotica dell’atmosfera – scrive Didion – la differenza tra vivi e morti risulta puramente formale». Un’istantanea non incoraggiante. Ma proseguiamo.
Lungo il Mississippi si scala la plaga paludosa cui un secolo prima è stato inferto il colpo mortale, una ferita mai cicatrizzata dalla rabberciata Ricostruzione voluta dal Nord. All’epoca di Didion, quel territorio è un ambiente infestato da alligatori e serpenti d’acqua, disseminato da gusci di armadillo, puntellato di stazioni di benzina Dixie e sporadici negozi di souvenir, in cui si vendono asciugamani con la bandiera confederata. Le città e le cittadine si accavallano sulle rettilinee delle interstate: le francesi Baton Rouge e Biloxi, Mobile, luogo di nascita di Tennessee Williams, Meridian…. A Enterprise, dal nome promettente, si offrono sette hamburger per un dollaro da consumare in compagnia di inerti anziani che si riposano al fresco della veranda dopo una giornata di non lavoro. Nel passaggio in Alabama si incontra Eutaw, percorsa da un raro trenino, poi Tuscaloosa e Birmingham. Quindi, già molto all’interno, si estende lo Stato del Mississippi (quello di Ike McCaslin) con Oxford, la cittadina di Faulkner, al quale Didion rende omaggio visitandone il sepolcro, e Jackson, la capitale dello Stato, dove abita Eudora Welty. Nel ’70 il Sud era ancora paralizzato, congelato nello shock della sconfitta e dell’odio razziale, ma in alcune aree si inizia a vedere, grazie a manodopera a basso costo (nera), l’«infinito verde dell’erba». Sta per giungere l’industrializzazione e sonnolenza e torpore andranno finalmente a dormire.
Joan Didion ci racconta un pezzo di storia attraverso pagine di un diario. Molto oggi è cambiato da allora nel Sud e nell’Ovest. Attraverso il suo memoriale, ci resta il risultato dell’osservazione giornalistica da lei archiviata allora per restituircelo a distanza in A Sud e a Ovest. Oggi si permette un bilancio su quanto le premeva cinquant’anni fa: «Nel Sud sono convinti di aver insanguinato la propria terra con la storia – scrive – nell’Ovest pensiamo che nulla di ciò che facciamo possa insanguinare la terra, cambiarla, o toccarla. Come si è arrivati a questo? Cerco di collocarmi nella storia. È tutta la vita che cerco la storia e non riesco ancora a trovarla». Il punto è, in conclusione – ella riporta da C. Vann Woodward – che ogni «gruppo, di qualsiasi misura, che rifletta su di sé, fabbrica miti sul proprio passato: sulle proprie origini, sulla propria missione, sulla propria rettitudine, sulla propria benevolenza e generale superiorità». Come a dire, a ciascuno la sua misura, a ciascuno il proprio travaglio nella costituzione di un bene comune, dove il mito che si è costruito su se stessi deve, prima o poi, piegarsi alla necessità deterministica di uno sguardo implacabile allo specchio, prendere atto di ciò che non ha funzionato e scendere infine, con autocritica, nel tempo, scordando nostalgie e recriminazioni.