Presentando la programmazione di quest’anno, il direttore della Berlinale, Carlo Chatrian, comincia il suo editoriale con queste parole: «A volte, si ha l’impressione di aver attraversato un fiume selvaggio». L’allusione è agli anni della pandemia, durante i quali i festival, grandi e piccoli, si sono dovuti ripensare. Oggi solo qualche ayatollah della mascherina è lì a ricordarci che, un anno fa, entravamo nelle sale con l’impressione di vivere un’avventura. Cosa fare di questa normalità ritrovata? Per Chatrian: «La forza della Berlinale sta nel portare insieme diverse prospettive». Vero, ma solo a compartimenti stagni. Il Forum, Panorama, il concorso berlinese, sono da sempre selezioni portatrici rispettivamente di una certa fascia di film. Da sempre insieme, ben separate l’una dall’altra. Ma mai come quest’anno.
Il vantaggio è certo la visibilità del programma. La «prospettiva» della competizione è più che mai evidente. Quasi tutti i film visti finora rispondono ad un modello che potremmo definire melodramma familiare. In alcuni casi l’occhio del regista è più felice (Garrel, Zhang Lu, Celine Song) in altri meno (Trengove, Atef, Avilés), ma il punto di vista, il tono, lo sguardo non si azzarda mai al di là o al di qua dell’orizzonte dato dai rapporti sentimentali o parentali. Non si tratta in sé di un male, ma tutta questa coerenza è come un’acqua stagnante dove persino le opere più vigorose nuotano a stento e quelle meno in forma affondano.

«TOTEM» è un dramma corale della regista messicana Lila Avilés. Un giovane pittore sta morendo di cancro, la famiglia organizza nel giorno del suo compleanno una grande festa invitando amici e parenti per un saluto che tutti sanno essere definitivo. I preparativi sono visti con gli occhi della figlioletta di sette anni, la quale sa che il padre ha poco da vivere e deve trovare un suo spazio in questo lungo addio collettivo. La regista cerca di imprimere un movimento al film creando delle scenette, alternando dramma, commedia, pathos, giocando soprattutto sullo sguardo dei bambini. Dalle poche finestre che il film si concede entrano alcuni riverberi del mondo esterno, della storia indigena messicana e diversi insetti tropicali.

«20 000 ESPECIES DE ABEJAS» è ambientato nei paesi baschi, dal lato spagnolo. Ancora una volta, una famiglia, ancora una volta, un bambino, o meglio Aitor, che ha otto anni, passa l’estate con la madre, la sorella e il fratello maggiori nel villaggio dove vivono la nonna e la zia. Come molti bambini della sua età Aitor, che porta i capelli lunghi e ha dei tratti delicati, viene facilmente scambiato per una bambina. Il fatto è che Aitor si sente veramente una bambina. La madre esita sul da farsi. La nonna propone di tagliargli i capelli. La zia, apicultrice butch, suggerisce al contrario di affrontare la questione. Estibaliz Urresola Solaguren tratta un problema che conosce di prima mano. E sul quale alzi la mano chi ha una risposta. Così come Totem, anche 20 000 especies… ha pregi e difetti del dramma a tema: la malattia in un caso, l’identità sessuale nell’altro caso. In entrambi si tratta di un «riferimento» che schiaccia tutta la realtà del film rendendo il suo materiale, qui il villaggio basco, l’arte dell’apicultura e quella della scultura, un semplice contesto senza effettività. È una differenza notevole con il film di Garrel che al contrario non utilizza il teatro dei burattini come un semplice fondale, ma si immerge profondamente, e noi con lui, in quella pratica artistica.Le opere più vigorose nuotano a stento e quelle meno in forma affondano

Una scena da «Music»

«MUSIK». La questione famigliare torna anche nel film di Angela Schanelec, secondo titolo tedesco in gara. Regista di punta della prima generazione della Berliner Schule, Schanelec nelle sue storie lavora su sentimenti e gesti dell’umano a partire da punti di rottura, raggelandoli in astrazioni e ellissi narrative che ne lasciano il senso aperto. Musik, come viene sottolineato nel materiale stampa, lavora sul mito di Edipo, tra Sofocle e Holderlin, con l’ansia di conoscenza, riletto in un presente senza tempo tra la Grecia più remota quella urbana e un finale a Berlino oggi.
Una famiglia adottiva cresce Ion, abbandonato nei campi, che arrestato per un omicidio commesso in un gesto di impulso incontra in prigione una giovane donna, tra le guardie che seguono i detenuti. Fra i due (Agathe Bonitzer, Alioscha Schneider) accade qualcosa, lei gli regala preziose scalette musicali, poi si mettono insieme e fanno una figlia. Ian perde pian piano la vista, ma acquista nel senso musicale, la sua voce tocca tonalità differenti con le quali entra nel mondo. Il destino sarà ostile, il passato una nuova tragedia, il futuro quella musica che unisce in emozioni inattuali e che permette una differente e difforme visione del reale.
Per rispondere alle sue domande sui legami famigliari o amicali Schanelec lavora dunque sul senso dello sguardo, una scelta che dichiara i propri intenti nella narrazione astratta in cui l’immagine si fa suono, dettaglio, musicalità Ci sono inquadrature molto belle nel film, che forse però dissemina troppe piste rischiando così di non controllare fino in fondo la sua traiettoria.

Una scena da «Ingeborg Bachmann»

«INGEBORG BACHMANN – JOURNEY INTO THE DESERT». La parità di gender, le donne, sono temi prioritari per la Berlinale, sanciti da vere e proprie dichiarazioni di intenti. Ma che figure femminili stiamo vedendo sugli schermi del concorso? Donne fragili, seduttrici, folli, vagamente isteriche, assai affrante, molto nello stereotipo. Colpisce in modo particolare, Ingeborg Bachmann – Journey into the Desert, vista la storia della regista, Margarethe Von Trotta, una delle protagoniste del Nuovo cinema tedesco, femminista, narratrice del pensiero e della politica delle donne – suoi i ritratti di Hannah Arendt e Rosa Luxembourg. La «ricostruzione» della figura di Bachmann, magnifica poetessa e scrittrice austriaca, morta a Roma nel 1973 (era nata nel 1926) è invece piatta, affidata a una serie di cartoline tra l’Italia e la Svizzera, ai gesti un po’ affettati della sua interprete, Vicky Krieps, elegantissima e sempre sui tacchi, a una riduzione del suo universo intellettuale a un feuilleton da prima serata Rai1. Quel che soprattutto è totalmente assente è la dimensione letteraria: come filmare la parola? Von Trotta non si pone affatto la questione così come non si preoccupa di aprire spiragli sulla vita di Bachmann, il suo rapporto con l’Austria del dopoguerra,il nazismo. La lente narrativa è quella della sua storia d’amore con lo scrittore svizzero Max Frisch, pure lui ridotto a una figurina (per non dire del compositore Henze), con la scommessa (fallita) di un «rapporto stabile», lei che l’aveva sempre rifuggito, e forse non lo voleva neppure ma crolla quando finisce – lui poi si mette ovviamente con una studentessa, che poi sposerà – cadendo in una atroce depressione. La via di fuga è il deserto – pensando a The Sheltering Sky? – l’amante giovane che l’accompagna e i ragazzetti marocchini incontrati nel resort (un po’ colonialista) tra una cavalcata sul cammello e una notte di sesso a quattro per «rompere» le convenzioni borghesi. Chi non conosce Bachmann non la leggerà mai, e chi la conosce non può che innervosirsi. .
Von Trotta non cerca né la superficie né la profondità: pensiamo a un film come The Dreamed Ones di Ruth Beckermann, anch’esso su Bachmann, un film meraviglioso nel suo intrecciare il vissuto alla parola poetica. Anche lì il punto di partenza è una relazione, quella tra la scrittrice e Paul Celan, vissuta in una lunga corrispondenza, e sono le loro frasi, le parole a dirci di lei, del suo universo, della sua storia. Perché scegliere Bachmann se no?