Sulla consapevolezza che abbiamo del nostro presente circola da tempo una storiella folgorante che mi piace spesso citare. La storiella narra di due giovani pesci che nuotano sereni e spensierati. A un certo punto incontrano un pesce più anziano proveniente dalla direzione opposta. Questo fa un cenno di saluto e dice: «Salve ragazzi! Com’è l’acqua oggi?». I due giovani pesci proseguono per un po’ finché, arrestandosi di colpo, uno guarda l’altro e stupito si domanda: «Acqua? Che cosa diavolo è l’acqua?».

Ed in effetti il liquido in cui siamo immersi nella nostra vicenda quotidiana, nella nostra vicenda interna alla fase in corso, sembra aver colonizzato il nostro inconscio tanto da non rappresentare più un problema critico. «Il capitalismo è lo stato naturale della società», come ha affermato il già socialdemocratico Alain Minc.

Eppure, proprio perché la logica profonda dell’accumulazione si svolge senza ostacoli, compaiono di nuovo, su scala enormemente allargata, aspetti dell’accumulazione originaria con le connesse maniere disumane di estrazione del plusvalore in ogni angolo del mondo. Un quadro di per sé destabilizzante. Nello stesso tempo, però, «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» (M. Fisher, 2009).

In tale contesto lo spazio d’intervento politico per la sinistra erede della critica dell’economia politica e dell’antitesi politico/sociale risulta o estremamente ridotto, o, come nel caso italiano, addirittura inesistente.

La conoscenza reale della «stato di cose presente» passa, in primis, dalla individuazione dell’oggetto di analisi principale. Oggetto e categorie dell’analisi sono aspetti determinanti della collocazione e delle scelte politiche. La comprensione dei mutamenti del capitalismo, delle vere e proprie rivoluzioni del capitalismo che ne evitano il collasso, dei modi in cui agiscono nell’attuale fase, è precondizione essenziale per l’iniziativa politica della sinistra. Iniziativa politica che, nella fase del capitale totale, comporta l’inoltrarsi in itinerari assai difficili, in gran parte inesplorati, i cui esiti non sono garantiti.

Itinerari che non sono in grado di promettere alcun successo personale ai politici della sinistra che intendano percorrerli. Quella che chiamiamo «sinistra radicale», però, non può che essere del tutto interna a tale prospettiva. «Radicale», infatti, non è assolutamente sinonimo di «estremismo», bensì della ricerca delle «radici» dello «stato di cose presente», sola condizione per la comprensione dei meccanismi politici più adatti per il suo mutamento.

È vero che attualmente la sinistra radicale è del tutto impari a tale compito ed è vero anche, come dice Norma Rangeri, che il suo corpo è corroso da «personalismi, medaglie politiche, ambizioni velleitarie». L’alternativa che sembra più facile, però, è ancor più velleitaria. Corrisponde esattamente a quella che Engels definiva come «l’abbandono delle grandi questioni per rincorrere l’effimero successo immediato». Dove poi, oggi, il successo riguarda più le persone che le cose. Il nuovo campo di gioco in cui gareggiare per il «successo» lo ha definito con chiarezza Letta: una coalizione da «Renzi a Fratoianni» ruotante intorno al perno del Pd.

Se usciamo dalla chiacchiera del «progressismo» generico che condisce l’operazione con la retorica dei buoni propositi di sinistra, ed osserviamo, con onestà intellettuale e con gli strumenti della critica, la realtà delle coalizioni di quel tipo che abbiamo già sotto gli occhi, come possiamo pensare che il «nuovo» possa nascere e crescere in tale brodo di cultura? Come possiamo pensare che un «soggetto di sinistra» costruito «con determinazione (…) dentro coalizione» (Fratoianni, «il manifesto», 24 settembre), possa modificare gli assetti di fondo della strumentazione analitica, e delle pratiche politiche che ne derivano, consolidatesi in quasi trent’anni. Al massimo si potra discettare sui gradi di capitalismo compassionevole compatibili con i processi di accumulazione in corso.

Questo giornale dedica da sempre ampi spazio di informazione e di analisi a temi di politica estera, cioè a una dimensione consustanziale per gli equilibri dei suddetti processi. In particolare alle logiche delle politiche Nato e al ruolo della partecipazione italiana, È realistico ipotizizzare che la sinistra della coalizione possa avere qualche influenza in proposito? Lo stesso pernio della coalizione ne sarebbe scandalizzato.

Che cosa rispondere poi a quegli operai della Gkn che hanno appreso per dura esprienza che la loro condizione attuale non deriva solamente dall’aver a che fare con un padrone cattivo, ma dai modi in cui si manifesta oggi la razionalità del mercato? La coalizione non può che muoversi entro i limiti derivati dalla convinzione, introiettata dal suo pernio, che «il capitalismo è lo stato naturale della società».

Naturalmente ci si potrebbe muovere su pensieri e tempi lunghi, ma, come sappiamo, sui tempi lunghi siamo tutti morti. Ed allora è meglio accontentarsi del tepore di una qualche nicchia all’interno di una delle forme del capitale totale.