Nella Baia di Porto Conte o «delle Ninfe», come la chiamavano Greci e Romani – a circa quindici chilometri da Alghero – si trova il Nuraghe Sant’Imbenia, un monumento del XIV secolo a.C. sconosciuto ai più ma ben noto alla comunità scientifica internazionale. Qui, lungo la strada che costeggia i panorami mozzafiato, puntellati da torri aragonesi, della Riviera del corallo fino al maestoso promontorio di Capo Caccia, s’incontravano un tempo mercanti giunti da isole vicine o da terre lontane volte ad Oriente.
Nell’area antistante al nuraghe – dove si estende un agglomerato di capanne, il cui nucleo originario è forse pertinente a un villaggio di pescatori –, un gruppo di ricerca della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio (Sabap) di Sassari e Nuoro e dell’università di Sassari, diretto da Gabriella Gasperetti e Marco Rendeli, ha infatti individuato una «piazza» della seconda metà del IX secolo a.C. (830 ca.) destinata al commercio di beni alimentari e di artigianato.

DOPO GLI SCAVI effettuati dalla Soprintendenza tra il 1982 e il 1996, le indagini sono riprese nel 2008 in base a una convenzione che ha visto coinvolti centinaia di studenti e giovani studiosi italiani e stranieri. Appena varcato il cancello che dà accesso al sito (normalmente chiuso al pubblico, in quanto compreso in una proprietà privata) s’intravedono le rovine di un nuraghe monotorre, svettante a cento metri dal litorale. Raggiunta la zona degli scavi, ci s’immerge nel groviglio di ambienti, simile a un enorme nido d’ape, che si affacciano su uno spazio comune dalla forma vagamente ellittica. Gli archeologi hanno da poco deposto le cazzuole fino alla prossima campagna e solo il canto delle cicale rompe il silenzio. Non è però difficile immaginare il brusio che dovette accompagnare gli affari in quest’antichissimo melting pot.
«La piazza ha avuto una vita lunga e complessa – ci racconta Rendeli – ma poche sono le tracce riconducibili al Bronzo recente (1300 a.C. ca.) ovvero al momento in cui venne costruito il nuraghe, successivamente rinforzato e forse chiuso da un bastione». Le strutture messe in luce appartengono a un unico progetto urbanistico, che inizia verso la metà del IX secolo a.C. e continua fino alla metà del VI. In quest’arco cronologico, quando il nuraghe perde la sua funzione e diviene una «quinta», nell’intera regione della Nurra si attua un lungo processo di trasformazione, favorito dalle relazioni con genti venute da Oriente.

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UBICATO ALL’ESTREMITÀ di un golfo naturale protetto dal maestrale e in una posizione strategica per i flussi marittimi diretti a Occidente, Sant’Imbenia è il punto più vicino alle Baleari e al versante meridionale della penisola iberica. Il suo entroterra, inoltre, è ricco di metalli nonché propizio all’agricoltura e all’allevamento degli ovini. Tali condizioni, assieme al crescente interesse dei mercanti stranieri per questa regione, determinarono un cambiamento radicale nell’organizzazione politica ed economica.

La piazza di sant’Imbenia

SEGUENDO LE IPOTESI formulate da Rendeli e dai suoi collaboratori, è in quel periodo che si verificò una specializzazione del lavoro basata sullo schema domanda-offerta, indirizzata sia allo sfruttamento delle risorse primarie – produzione di cereali, vino, olio, formaggi, carni e pelli; estrazione dei metalli – che secondarie. Quest’ultimo caso annovera attività quali la lavorazione dei metalli e la fabbricazione di ceramiche e di oggetti di artigianato, specialmente adibiti a contenere le merci. Le comunità locali «fanno sistema», la società si segmenta e amplia le sue gerarchie.
Nell’ultimo quarto del IX secolo a.C. la «rivoluzione urbana» è compiuta e il fulcro del complesso di Sant’Imbenia si concentra su uno spazio aperto e pavimentato attorno al quale si distribuiscono botteghe e atelier, proprio come in un odierno mercato. Nell’ambiente più grande gli archeologi hanno riconosciuto una sorta di sala istituzionale per la stipula di trattati e accordi commerciali.
Oggi salta subito agli occhi il «patchwork» di pietre che caratterizza i muri degli edifici. Il villaggio originario s’impiantò infatti su una zona di acque stagnanti. Di conseguenza, le rocce multicolori – arenaria sabbiosa, calcare conchiglifero e scisti – provengono da cave limitrofe o distanti, come quelle di Monte Doglia, Monte Timidone, Porto Ferro e Cala Viola. L’assenza di battuti di terra o di lastricati sul fondo delle capanne lascia supporre una pavimentazione costituita da assi di legno, allestiti durante la stagione del mercato (corrispondente a quella del «mare aperto») e poi rimossi. Non è tuttavia da escludere che gli scambi si svolgessero tutto l’anno. Nata probabilmente come area comunitaria rivolta verso l’esterno, la piazza si consolidò anche come centro di aggregazione per il commercio locale.
La rete del sistema includeva le miniere dell’Argentiera e di Calabona e forse anche quelle di Canaglia. A rappresentare la fervida vita economica ci sono i reperti. Fra tutti spiccano i cosiddetti ripostigli, collocati in capanne a sud della piazza, in un caso con ingresso non direttamente su di essa ma in evidente rapporto. All’interno di questi depositi sono stati scoperti circa 130 chilogrammi di metalli – soprattutto rame ma anche asce di bronzo, bracciali e un’elsa e parte del fendente di una spada –, usati come «moneta» nelle transazioni.
I suddetti oggetti sono attualmente sottoposti ad analisi archeometriche (insieme dei metodi sperimentali delle scienze fisiche, chimiche, biologiche e geologiche per la diagnostica dei manufatti, ndr) da parte di una squadra composta dai ricercatori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) di Sassari, dell’università di Milano-Bicocca e dei Laboratori nazionali del Gran Sasso. In un altro ripostiglio sono stati raccolti innumerevoli semi di cardo, forse arrivati dal Levante, trattati alla stregua di un «tesoretto» e utilizzati verosimilmente nella cura delle malattie gastriche ed epatiche che potevano colpire i marinai o i viaggiatori.

NEL CONTESTO di Sant’Imbenia assume grande importanza lo studio delle ceramiche, affrontato dal punto di vista morfologico da Elisabetta Garau, docente di Metodologie della ricerca archeologica presso l’università di Sassari. Minuziose analisi sulle argille sono state invece condotte da Beatrice De Rosa, del medesimo ateneo, con il supporto del Laboratorio di energia nucleare applicata dell’università di Pavia e dei Laboratori nazionali del Gran Sasso, istituti membri della rete dei beni culturali (Ch-Net) dell’Infn.
Tra i più di trecento frammenti di orli di anfora, particolarmente rilevante è stata l’identificazione di una tipologia di contenitori vinari fabbricati a Sant’Imbenia. Ritrovati anche nella penisola italiana, in Nord-Africa e nella Spagna del Sud, erano associati a un corredo per il consumo del vino sardo formato da brocche askoidi e «vasi a collo», spesso realizzati a Sant’Imbenia. Alle esportazioni fanno eco importazioni dalle medesime regioni del Mediterraneo, soprattutto da Cartagine. Chele di astice, giunture di fenicottero e una patella attestata solo in Marocco testimoniano pasti «multietnici», mentre la presenza di palchi di cervo potrebbe essere legata alla sfera votiva.

L’ESPERIMENTO della piazza del mercato ebbe successo perché si configurava quale luogo di scambio e di integrazione di genti. La condivisione di saperi influenzò e trasformò il territorio, la società e la vita quotidiana. Prima di congedarsi da questo sito unico dell’Età del Ferro – un orizzonte che si amplia ad ogni campagna di scavo, mostrando una Sardegna plurale e competitiva in un Mediterraneo sempre più interconnesso nel corso della prima metà del I millennio a.C. –, vale la pena salire in cima ai resti della torre nuragica. «Mi piace pensare che nel momento in cui perse la sua funzione all’interno del villaggio, il nuraghe servisse da faro per i mercanti in arrivo…», dice Rendeli. Come non abbandonarsi a questa suggestione? Un bagliore lontano, il cielo stellato, l’odore inebriante del lentisco e dell’elicriso. È l’approdo nella Baia delle Ninfe che accoglie gli amanti sempiterni dell’Isola dei Nuraghi.