La strada da imboccare per raggiungere i villaggi dei pomacchi si allunga tra i tornanti circondati da alberi color inchiostro, e nei suoi numerosi tratti non asfaltati le macchine in percorrenza sono una visione rara: più facile scorgere qualche mandria di cavalli, un asino solitario o una donna in attesa sul ciglio della strada, con i capelli coperti da un fazzoletto colorato che ravviva la lunga veste nera. Ufficialmente i pomakochoria, ovvero i «villaggi pomacchi» secondo la denominazione greca, puntellano le pendici dei monti Rodopi, al confine tra Grecia e Bulgaria, ma all’inatteso visitatore che si inerpichi fin lassù bastano pochi sguardi per rendersi conto che quei luoghi appartengono a una cartina geografica di più difficile decifrazione.

Superata Xanthi, la città più vicina, con le sue stradine lastricate, le fabbriche di tabacco dismesse, il cimitero ebraico in rovina e i migranti lungo i guard-rail dell’autostrada – sopravvissuti all’attraversamento del fiume Evros e diretti verso Salonicco – ci si addentra nella Tracia profonda, tra le regioni più povere della Grecia e tra le ultime ad essere annesse allo Stato moderno: una terra di confine, di cui i pomakochoria rappresentano la frontiera ultima, vittima ancora dei conflitti che l’hanno attraversata e delle contese che l’hanno più volte ridefinita.

Sui Monti Rodopi
Una storia tramandata dagli abitanti del posto fa discendere i pomacchi dall’antica tribù degli «apomachous», soldati veterani al servizio di Alessandro Magno. Più verosimilmente, i pomacchi vanno considerati una popolazione di origine slava originaria dei monti Rodopi e convertitasi nel 1600, durante l’Impero ottomano, all’Islam. Popolo di pastori e di agricoltori, errante per necessità: si possono incontrare ancora oggi vecchie signore dalle trecce cespugliose che vendono cesti di vimini in lontane regioni greche e parlano la lingua madre dei pomacchi, un dialetto bulgaro. Oggi questa popolazione appartiene, assieme ai turchi e ai rom disseminati in Tracia, alla cosiddetta minoranza musulmana di Grecia, riconosciuta e tutelata dalla Costituzione.

Sulla strada per i pomakochoria, il primo grande villaggio che si incontra è Echinos, anticipato dal suo cimitero: lapidi incise con i nomi più diffusi, Mahmed, Ahmed, Nasreddin, e decorate con motivi floreali incorniciano l’entrata del paese. Il grigiore delle case è spezzato soltanto dai tappeti persiani stesi a proteggere i vetri dei pick-up parcheggiati e dai fazzoletti delle donne appesi a asciugare. La popolazione riemerge al richiamo alla preghiera, quando gli anziani prendono la strada della moschea a testa bassa, guidati dal canto del minareto, mentre i cani randagi si aggirano tra le cassette di frutta dei negozi.
Da quando, nel 1919, hanno preso forma i confini attuali con la Bulgaria, i villaggi sono entrati a fare parte del moderno Stato greco ma su di essi si è abbattuta la «sbarra», come la chiamano ancora oggi gli abitanti del posto: durante la Guerra fredda i villaggi, per la loro vicinanza alla Bulgaria e la loro composizione etnica considerata sospetta, vennero posti sotto controllo della polizia. Per entrare e uscire, ogni giorno fino al 1996 i residenti dovevano superare i posti di blocco mostrando l’autorizzazione necessaria agli spostamenti.

«Quella sbarra non c’è più, ma psicologicamente siamo ancora un popolo sotto sequestro» racconta Eminè Bouroutzì, presidente dell’«Associazione culturale dei pomacchi di Xanthi», mentre ricorda di quei tempi vissuti da bambina, quando il gioioso proposito di andare a comprare un pollo in città si poteva tradurre in un insopportabile percorso a ostacoli per superare i posti di blocco. Oggi Eminè, con il suo viso tondo e i suoi capelli chiari, rappresenta lo stretto passaggio tra tradizione e modernità che gli abitanti del luogo stanno attraversando. Sposatasi a 13 anni attraverso un matrimonio combinato, Eminè ha lavorato da allora nei campi intorno a Xanthi, finché dopo vent’anni di matrimonio ha chiesto il divorzio, si è dedicata allo studio del greco grazie ai corsi serali e ha dato vita a un’associazione per promuovere la cultura dei pomacchi.

Da anni, i suoi capelli non sono più velati dal fazzoletto, se non quando si esibisce in costumi tradizionali come cantante in giro per la Grecia. I suoi dischi, inizialmente incisi con uno pseudonimo per timore delle reazioni della sua famiglia, raccontano la storia di queste terre attraversate nel Novecento da eserciti e partigiani, ma anche di tradimenti e languori sentimentali. «Fino a vent’anni fa gli uomini non parlavano con le donne: le canzoni, intonate tra le pareti di casa ma con le finestre aperte per farsi udire dalle strade, erano l’unico mezzo per corteggiare o rimproverare il proprio amato».

Paesi spopolati
Molti canti risuonavano anche tra i campi di tabacco della Philip Morris, dove alla fine del Novecento era impiegata buona parte della forza lavoro: poi quelle terre non sono state considerate più redditizie, e oggi gli uomini sono emigrati in Germania, dove lavorano nei cantieri navali. Nei villaggi come Dimario, Miki e Medousa si vedono solo le loro spose dedite a crescere i figli e a impastare i klin, i pasticci pomacchi il cui ripieno varia di villaggio in villaggio, in attesa dei trasferimenti di denaro dall’estero. «Fino a cinque anni fa molte delle donne pomacche, anche giovanissime, prendevano antidepressivi – racconta Eminè – si presentavano ai presidi sanitari infelici e non potevano neppure parlare in greco per spiegarsi, così invece di fare psicoterapia, i medici prescrivevano le medicine». Oggi, anche grazie all’associazione culturale, una equipe medica di Salonicco visita regolarmente le donne e fornisce assistenza.

La mancanza di presidi sanitari adeguati è solo una delle conseguenze dell’isolamento in cui ha vissuto la comunità: nel Paese di Miki, le bambine con il viso incorniciato dai fazzoletti sgargianti giocano nel cortile di una scuola, poco lontano dai secchi della spazzatura che riempiono il letto vuoto di un fiumiciattolo, prova più evidente di una rete di servizi inefficace, come quella per la raccolta dei rifiuti.

La presenza di una minoranza musulmana greca da tutelare è stata riconosciuta dal Trattato di Losanna firmato dalla Turchia e dal Regno di Grecia nel 1923, ma di fatto la comunità è sempre stata considerata un problema di sicurezza interna perché quello dell’Islam, in Grecia, è vissuto storicamente come un mondo «ostile»: durante gli anni della dittatura dei colonnelli, il controllo della regione era affidato a specifici «governatori delle minoranze». La Turchia, a sua volta, ha approfittato dell’abbandono dello Stato greco per rafforzare la propria rete di influenze: lo stesso Erdogan ha visitato le moschee della regione e le università turche hanno incentivato l’iscrizione degli studenti in provenienza dalla Tracia.

Scuola multilingue
I più penalizzati da questa contrapposizione strumentale sono proprio i pomacchi: i musulmani di Tracia possono contare su un proprio sistema scolastico, che prevede non solo l’insegnamento della lingua greca, ma anche del turco e dell’arabo per le letture coraniche. «La nostra lingua madre è il pomacco, eppure siccome apparteniamo alla minoranza musulmana i bambini a scuola sono costretti a imparare il turco e l’arabo» racconta Eminè. «La religione viene così confusa con la nostra identità nazionale: molte famiglie scendono dai villaggi, quando i figli hanno concluso le elementari, per farli iscrivere nelle scuole pubbliche greche in città, ma non tutti possono permetterselo».

Quando Eminè era bambina, il momento più atteso era il passaparola tra gli abitanti con cui ci si dava appuntamento in qualche abitazione per raccontare storie popolate da draghi, fate e animali. Allora il più anziano esordiva «Bir vakît bir zamán», ovvero «C’era una volta…», e il racconto iniziava. Oggi larga parte di quella tradizione orale sopravvive solo nel ricordo delle generazioni più anziane. Ma con i suoi minareti custoditi tra le montagne, i carretti sospinti a mano e gli uomini a mollo negli hammam nascosti tra le rocce, i pomakochoria sembrano ancora appartenere a una misteriosa parentesi del tempo.