Un gruppo stretto di danzatori di spalle in abiti neri è la prima immagine di Venezuela, potente spettacolo del coreografo Ohad Naharin per la Batsheva Dance Company di Tel Aviv con cui lavora da trent’anni. Titolo scelto senza rimandi dichiarati a nulla, pur se il debutto del pezzo in Israele risale alla fine del 2017. In Italia Venezuela è arrivato ora, visto nella stagione di danza del Comunale di Vicenza nella settimana della giornata della memoria, tappa della tournée della Batsheva partita dal Valli di Reggio Emilia e chiusa al Grande di Brescia.

I DANZATORI iniziano a camminare verso il fondo della scena, lentamente si separano. La musica è un canto gregoriano. I danzatori sono otto, si separano, ballano in coppie, movimenti di tango, ricomposizione in un largo cerchio che si intreccia con un danzare a saltelli, senza quasi che ce ne accorgiamo in scena sono diventati sedici. La musica è sempre la stessa. Un danzatore guarda il pubblico con un microfono in mano, gli altri in fila orizzontale continuano a marcare il ritmo saltellando. Adesso al microfono sono in due. Nel canto gregoriano si infila, violento, il rap. La canzone è Dead Wrong di The Notorious B.I.G., parla di sbagli, deboli e forti, fumo di pistola, sesso, soprusi. La cantano tutti, di nuovo in un gruppo sulla base costante del gregoriano. La scena cambia, ora sono in dieci. Le donne a cavalcioni sugli uomini a quattro zampe. Una passeggiata lenta, regale, come a dorso di cammello. Da sinistra entrano in sei, portano di profilo bandiere di stoffa bianco-écru, una sull’altra, cadono a terra, per ognuno ce ne è una. Le bandiere sono battute contro la terra in una danza collettiva, al centro, sdraiato, un solo uomo verrà sepolto sotto le bandiere e poi svelato da una donna come in una Pietà.

ALTRI UOMINI, altre donne ora sono a terra, reclini. Il canto si apre all’ora pro nobis. Morte, guerra, pace. In scena sono di nuovo in otto. Ognuno si muove solo, una dichiarazione di sé, salti, cadute. Un moto propulsivo dall’interno del corpo: i danzatori crescono con il metodo Gaga, inventato da Naharin, danzare è un flusso di energia diretta che esplode dal corpo in miriadi di sfumature verso una consapevolezza di se stessi. La danza è sempre più battente, focosa, virtuosistica, personale. Un urlo. Il canto gregoriano è impastato in un rumore sordo fino a sparire. I movimenti si fanno lenti. Una danzatrice cerca di baciare un uomo. Buio.

Sono passati quaranta minuti. La luce ritorna, un tono più caldo di quello dell’apertura spettacolo. Otto danzatori di spalle. Tutto ricomincia, ma la musica è cambiata e anche i danzatori. Si inizia con The Wait di Ólafur Arnalds e i passi di tango, le relazioni, già prendono un altro colore, altre sfumature. Riparte la corsa, il cerchio, il ritmo si è fatto sordo, Dead Wrong è più violento di prima sulla sua musica originale, l’impatto più diretto. La camminata nel deserto ha la sensualità di una canzone hindi e ci porta verso le bandiere: ora non sono più tutte uguali, i colori sono tanti, compresi quelli della Palestina, se pur mischiati in modo immaginario. Riecco la battaglia a colpi di bandiera che ora ci sembra più realistica nella testa, come il resto, i corpi per terra, la Pietà, le danze singole delle persone.

OGNI SPETTATORE ripercorre a suo modo, con la sua storia, la sua memoria, i suoi credo, i suoi dolori, ciò che vede per la seconda volta per altri quaranta minuti. Naharin alcuni anni fa: «Non penso che noi artisti abbiamo un ruolo speciale. Abbiamo il ruolo che hanno tutti: trovare una relazione con l’etica universale». E lo spettacolo regala questo messaggio da portare a casa.