«Madame Renard, veggente, preveggente, futuro,presente, amori, destini». Il cartello sul gabbiotto che vende i biglietti del bus destinazione Orly aeroporto dalla Piazza Denfert Rocherau – Sessantotto garreliano e leone «animato» nei film di Agnes Varda che lo osserva dalla «sua» Rue Daguerre – sembra quasi uno scherzo. O una traccia archeologica memoria di un paesaggio/passato che piace tanto adesso ai giovani filmmaker. Anni fa, in effetti, era pieno di «Madame Renard» e anche di «Monsieur Ibrahim» di cui specie all’uscita del metrò zona Montmartre e Barbes si veniva accolti da bigliettini che ne magnificano il talento. Parigi era gaia, spensierata, la primavera era un’avventura, le strade una scoperta, ogni quartiere un mondo e qualcos’altro: Zazie dans le metro, tracce sentimentali di Nouvelle vague, Pennac, il rai, i sarti burkinabé. E oggi? Nonostante gli sforzi, l’ostinazione, la tenacia della vita en terrasse dopo gli assassinii dello scorso novembre, e prima ancora il massacro della redazione di «Charlie Hebdo», l’atmosfera in città è davvero strana. Ci si abitua a tutto, si dice, ma per farlo si deve andare a togliere da qualche altra parte. Certo dal Belgio erano appena arrivate le notizie degli attentati e dei morti- ieri la prima pagina del quotidiano Liberation con l’immagine della gente in fuga nel tunnel della metropolitana a Bruxelles dopo l’esplosione sembrava un fotogramma di una post-apocalisse tragica – ma è come se tutto fosse avvolto da un’impalpabile membrana.

Nella relazione sospesa tra normalità e stato d’eccezione, quello per legge, e quello introiettato dalla paura – ci si abitua a tutto, appunto, anche all’ «etat d’urgence».
Se vedete un comportamento strano o un pacco sospetto avvertite subito la polizia ripete sulla banchina del metró come un mantra la voce in tutte le lingue. Un treno si arresta spesso, si scende e non riparte più: motivi di sicurezza. L’entrata ai musei è una coda infinita di controlli, hai visto cosa è successo a Bruxelles si mormora piano… Qualcosa ha fallito, qualcosa non ha funzionato… E in questo cosa accade tra chi lavora sulla realtà, ne cerca le trame, gli intrecci, i movimenti meno prevedibili?

Cinema du Reel 2016, il festival parigino del documentario nato 38 anni fa ha aperto qualche giorno fa con Between Fence di Avi Mograbi in cui il regista israeliano per la prima volta non interpreta il personaggio da cui muove la narrazione ma che confrontandosi con un soggetto sensibile dell’attualità utilizza lo stesso «metodo». Ovvero una messa in scena in forma di «straniamento» – sottolineata in questo caso dal fatto che il punto di partenza del lavoro è un workshop teatrale. Protagonisti sono i migranti rinchiusi in un centro di «accoglienza» in Israele, la loro condizione che implica anche quella della società israeliana non viene narrata però con interviste, ricordi, testimonianze dirette; Mograbi la mette in scena trasformando l’esperienza personale in collettiva.La realtà «a distanza», la ricerca di una forma del racconto, dell’immagine, di un’esperienza in cui cogliere il tempo e le sue contraddizioni sembrano le esigenze con cui si confrontano i i film visti nella selezione orchestrata da Maria Bonsanti.

Prendiamo Forgetting Vietnam (concorso internazionale) di Trinh T. Minh-Ha. L’obiettivo è tornare oggi sui luoghi – letteralmente e metaforicamente – della guerra dopo quarant’anni. Quale consapevolezza hanno di quella storia i vietnamiti? La regista, anche scrittrice e compositrice, studiosa del postcolonialismo, inizia la sua investigazione dal mito: la nascita del Vietnam, che chiama «lei» dalla battaglia di due draghi, e l’equilibrio tra acqua e cielo che ne definisce il profilo. Un contrappunto che attraversa le epoche fino al presente, partenza/ritorno, Storia/turismo. Quel (o quella) Vietnam che diviene la nuova Thailandia, e vende le sue leggende in formato cartolina kitsch. Tra le rovine dei templi, meta di visite guidate, il paesaggio appare bello, luminoso, seducente come se i morti, la violenza, le deportazioni di massa, le fughe, le bombe, i villaggi cancellati dagli americani, siano stati inghiottiti dall’oblio. Chi ricorda della battaglia di Hue, chiede la voce poco narrante.

24vissinEl viento sabe que vuelvo a casa 3

Ciascun luogo ha una storia e un suo movimento. Vent’anni fa le immagini video riprendevano strade caotiche piene di bici. Oggi il digitale mostra le stesse strade solcate da macchine e moto. Effetto dell’economia del «made in Vietnam»? In cielo un elicottero sorvola il tempio come per proteggerlo. Cosa ne è stato della lotta dei Vietcong? Cercare la Storia nei luoghi è, appunto, oggi una attitudine diffusa tra cineasti che lavorano nel documentario, cosa che implica in molti casi un attraversamento dell’immaginario. Lo stesso accade qui, pensiamo ai film americani sul Vietnam, anche se l’orizzonte di Trinh T.-Minh Ha non è quello della giungla e di Full Metal Jacket. Al contrario la sua scelta sembra concentrarsi sull’aspetto quotidiano e ordinario di un paesaggio umano, mentale, fisico e sulla rimozione che ha attuato del proprio passato. Le cui tracce appartengono solo alla memoria della regista, rimangono fuori dal quadro, oltre ogni bordo. Una scommessa bella, questa, con il limite però di un eccesso del dispositivo, assai visibile fino a essere quasi didascalico, che la fonda: quel dualismo passato/presente che disegna un confine troppo stretto.

Un regista sta preparando il suo film, la storia di un ragazzo e di una ragazza che si amano ma non possono stare insieme così fuggono via e nessuno sentirà mai più parlare di loro. El viento sabe que vuelvo a casa è il nuovo film di Josè Luis Torres Leiva, talentuoso filmmaker che conferma la vitalità del cinema cileno, il cui protagonista è un altro regista, Ignacio Aguero (a lui Torres ha dedicato un bel ritratto nel film precedente), e il pretesto narrativo del film da fare permette a Torres di costruire un racconto corale, lieve e profondo le cui radici ricorrono in tutta l’America latina. L’isola in questione è Meulín, una ragazza a cui Ignazio dà un passaggio dice che la madre, avvocato degli indios, le ha parlato delle isole come realtà complesse: la difficoltà di muoversi, le violente tempeste, sono forse queste la cause dei molti suicidi. L’isola però ha una bellezza quasi remota, è divisa in due grandi centri San Francisco e el Transito separati da un ponte. Nord e sud.

Qual è la differenza chiede Ignacio? Il primo appartiene tradizionalmente agli indios, Mapuchi, l’altro è abitato invece dai discendenti degli spagnoli, i colonizzatori, oltre al ponte li separa la declinazione dei cognomi. Potrebbe accadere qui una storia come quella del mio film, chiede Ignacio. Nessuno o quasi l’ha mai sentita ma tutti sono convinti che sì perché specie in passato sposarsi tra persone dei diversi gruppi era quasi impossibile. C’è chi per farlo è fuggito altrove come quella donna che nella sua bella casa davanti al mare ricorda come lei e suo marito abbiamo dovuto affrontare infinite difficoltà per sposarsi. O quella coppia più giovane, anche se i genitori non si sono troppo opposti al matrimonio, lui dalla parte spagnola ha dovuto attraversare il confine.

E poi il casting con i ragazzi del liceo, qualcuno suona la fisarmonica, altri danzano con Rihanna, un altro suona la batteria. Il bimbo inventa storie fantastiche davanti al vulcano. L’anziana donna con otto figli parla di quello che è scomparso in Brasile tanti anni prima, trapezista del circo. Che possa essere morto non lo prende neppure in considerazione: «Non ha più scritto perché era arrabbiato con me». Le storie si accavallano nel flusso di un quotidiano semplice, che scorre lento insieme alle stagioni. Torres riporta nelle vite singolari il conflitto ancestrale del suo continente, la storia secolare diventa esperienza, fluisce nel tempo del film e nel suo sentimento.