«Giovedì le forze di sicurezza della giunta militare birmana avevano detto alle persone di non partecipare allo sciopero proclamato per venerdì, promettendo di fornire sicurezza sufficiente a coloro che avrebbero voluto tener aperte le loro attività. Ma la gente – scriveva ieri il quotidiano online Irrawaddy – le ha sfidate e si è unita comunque allo sciopero». Uno sciopero davvero particolare e una nuova invenzione della più creativa resistenza popolare di questi anni: ieri infatti, Giornata mondiali dei diritti umani, i birmani hanno deciso uno sciopero del «silenzio». In una parola una serrata totale di ogni attività pur senza cortei né manifestazioni: strade vuote, centri commerciali e negozi chiusi, macchine ferme, usci delle case sbarrati.

E così, in un’ennesima prova di forza tra resistenza e golpisti – che da oltre dieci mesi occupano le istituzioni e reprimono le proteste – lo sciopero generale del silenzio è riuscito in pieno: da Yangon al più piccolo villaggio del Myanmar. Le immagini rimbalzano sui principali siti delle agenzie di stampa che confermano la riuscita di uno sciopero cui non hanno partecipato nemmeno gli ambulanti e che si è concluso verso le 4 del pomeriggio, un paio d’ore prima del buio.

Come in altre occasioni la giornata birmana si espande anche dove vivono le comunità della diaspora. In Italia, per esempio, oggi si terrà una manifestazione per il sostegno al popolo birmano a Roma in Piazza della Repubblica dalle 14 alle 15. «Una manifestazione globale che la comunità birmana – spiegano i membri di quella italiana – terrà in ogni parte del mondo per chiedere la fine alle atrocità commesse dai militari. I nostri amici e famigliari in Birmania stanno soffrendo. Stanno affrontando atrocità così crudeli che non devono più ripetersi».

La sciopero di ieri ha coinciso anche con un’altra notizia che riguarda il Paese governato dai militari: il Myanmar Accountability Project (Map), organizzazione non governativa con sede a Londra, ha presentato un dossier al Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aja in cui si accusa di crimini contro l’umanità l’uomo che ha guidato il golpe del 1° febbraio scorso, il generale Min Aung Hlaing. Nella nota diffusa ieri dall’organizzazione, il Map chiede al Tribunale internazionale di aprire un’indagine penale sull’uso diffuso e sistematico della tortura come parte della violenta repressione contro il movimento di protesta in Myanmar, repressione che le Nazioni Unite hanno definito una «campagna del terrore».

Il Tpi aveva già tentato di aprire un’inchiesta sulle violenze contro i Rohingya ma il Myanmar – che non aderisce al Tpi – gli aveva sbarrato la strada. Farà lo stesso ma resta il dossier con prove evidenti di tortura – secondo l’Ong – accompagnate da un’analisi legale per dimostrare che l’uso di questa pratica nel Paese è diffusa e sistematica ed è il risultato di politiche statali, dunque preordinate con l’avvallo dei vertici. Tutti elementi che portano al reato di crimini contro l’umanità, sostiene l’organizzazione del Regno Unito.