In uno dei momenti più esilaranti del suo ultimo, brillante romanzo, La capitale, Robert Menasse immagina che una giovane impiegata della burocrazia europea si trovi alle prese con il problema pressoché insormontabile di organizzare i festeggiamenti per l’anniversario della Commissione, trovando un punto mediano fra le disparate idee di tutte le rappresentanze nazionali del continente, ciascuna delle quali convinta di avere diritto più di ogni altra ad avanzare una proposta irrespingibile; e mentre le carte si accumulano sul suo tavolo, la responsabile del procedimento si accorge che i funzionari hanno accettato praticamente tutte le indicazioni arrivate, comprese le più inverosimili, come la pretesa italiana di ricordare con un galà e una festa di piazza i Patti di Roma, che con la nascita della commissione europea non hanno nulla a che fare.

La rappresentazione di questo allegro e disperato caos burocratico da parte dello scrittore viennese ha suggerito a molti l’accostamento con l’«Azione parallela» che Robert Musil aveva messo al centro della trama storico-politica dell’Uomo senza qualità, cioè il piano per le celebrazioni dei settant’anni del regno di Francesco Giuseppe destinate a svolgersi nel 1918, quando né l’imperatore né l’impero sarebbero più esistiti. Forse il successo del libro di Menasse ha anche contribuito alla rinascita dell’interesse per l’opera dello stesso Musil, l’attualità del cui sguardo sarcastico sul reale e sulle illusioni di un mondo al tramonto riaffiora oggi in tutta la sua evidenza.

Colmata una lacuna
Non per nulla, scontata la conoscenza delle grandi prose e soprattutto del monumentale romanzo incompiuto, è la sua vasta produzione saggistica ad aver riconquistato il palcoscenico. Non manca più molto, infatti, perché quasi ogni pagina delle riflessioni di Musil sia disponibile anche in italiano: di recente sono apparsi perfino gli articoli scritti per «Heimat», il settimanale di guerra di cui fu direttore dopo l’esperienza bolzanina della «Soldaten-Zeitung» (L’ultimo giornale dell’imperatore, traduzione di Davide Zaffi, a cura di Massimo Libardi e Fernando Orlandi, Reverdito, 2019). E un’altra lacuna importante viene ora colmata dal volume a cura di Alessandro Ottaviani, L’Europa smarrita (Meltemi, pp. 318, e 20,00) che fa conoscere per la prima volta al pubblico italiano il saggio La nazione come ideale e come realtà, pubblicato dalla «Neue Rundschau» nell’ultimo numero del 1921. Il merito del volume è, in realtà, quello di presentare in successione cronologica tre saggi fondamentali, dai quali è possibile farsi un’idea precisa dei temi e delle riflessioni che Musil articola nel momento esatto in cui ha cominciato a sviluppare i primi abbozzi dell’Uomo senza qualità.

È in questa fase, infatti, che comincia a tirare le somme del suo confronto con le trasformazioni e le inerzie della cultura del dopoguerra, conseguenza e modello, per lui, di tutte le debolezze costitutive del razionalismo europeo. Nel saggio dedicato al Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, che apre la serie, si incontra, ad esempio, l’articolazione più compiuta di quella distinzione fra sfera «razioide» e «non-razioide» del pensiero, già formulata nella Conoscenza del poeta del 1918, che diventa ora il paradigma a cui commisurare il progetto di una conoscenza «sur-razionale», cioè la conquista da parte della razionalità delle sfere dell’analogia e dell’(apparentemente) non razionale.

Si tratta, per Musil, di conquistare alla comprensione intellettuale tutto ciò che essa ha escluso da sé o che dall’intelletto medesimo sembra voler prescindere: l’intuizione, il sentimento, l’esperienza vitale o l’istinto; e allo steso tempo si tratta di depurare l’intelletto dalla sua rigidezza, dalla sua fiducia incondizionata nel concetto, nella logica causale, nella linearità e nella rigorosa distinzione di fenomeni e idee.

Simboli del piacere
Il libro di Spengler è per Musil un esempio monumentale di diagnosi condivisibile e soluzione sbagliata, poiché pretende di correggere la rotta del pensiero mediante il ricorso a quello che Musil ritiene un combinato di approssimazione poetica e semplificazione ideologica parodiate – in uno dei numerosi passi di sublime ironia del saggio – in un perfetto calco delle circonvoluzioni spengleriane: «Ci sono farfalle di color giallo limone e ci sono cinesi di color giallo limone; in un certo senso si potrebbe anche dire: la farfalla è il cinese nano, alato, d’Europa. Farfalle e cinesi sono proverbiali simboli del piacere. Ecco dunque che per la prima volta si affaccia l’idea di una corrispondenza, finora mai osservata, fra la grande epoca della fauna dei lepidotteri e quella della cultura cinese. Che poi la farfalla abbia le ali e il cinese no, è solo un fenomeno trascurabile. Se uno zoologo capisse anche solo un poco delle ultime e più profonde acquisizioni della tecnica, non dovrei essere io il primo a spiegare che non sono state le farfalle a inventare la polvere da sparo; proprio perché l’hanno già fatto i cinesi. La predilezione suicida di certe farfalle notturne per la luce ardente altro non è che il relitto, difficile a comprendersi per l’intelletto diurno, di questo rapporto morfologico con la cinesità».

Critica delle convenzioni
La critica a Spengler, del resto, prelude alle considerazioni che Musil sviluppa nel suo saggio sulla nazione – centrato sui miti della razza e dell’identità collettiva – e, soprattutto, nell’Europa smarrita, forse il capolavoro assoluto della saggistica di Musil (che per evitare fraintendimenti sarebbe più corretto tradurre, come pure altri hanno fatto, L’Europa inerme). Qui il tema di fondo riguarda i limiti della conoscenza storica e i pericoli della sua manipolazione: punto di partenza, ancora una volta, la critica alle convenzioni del sapere e alla superficialità e artificiosità dei suoi costrutti.

La ricerca a ritroso dei moventi dei fatti, osserva Musil, non è più credibile di una pellicola avvolta al contrario in cui un elefante abbattuto da un cacciatore torni ad alzarsi, contro ogni probabilità e ogni legge della fisica; la definizione di leggi dell’accadere implica l’esclusione di una quantità enorme di fattori casuali e incidentali dovuti, fra l’altro, alla realtà vitale assai mal conosciuta dell’uomo; l’abitudine alla distinzione di epoche impedisce di vedere che nella storia conoscenze, idee, fattori culturali e ricordi si sovrappongono continuamente, così che nulla, effettivamente, può dirsi chiuso per sempre. Ma il punto d’arrivo è, questa volta, un’idea di conoscenza come «interpretazione della vita», che leghi in una sola visione complessiva – le «ragioni dei nessi, dei vincoli dei significati mobili delle motivazioni e delle azioni umane» come, a loro modo, sanno fare l’arte, l’etica o la mistica, mentre sottraggono i valori all’irrigidimento della maschera mortuaria che è propria della morale, o il sentimento al meccanicismo della psicologia causale.

È evidente che, a parlare, è già il Musil del suo ultimo, grandissimo romanzo. È il Musil divenuto il più lucido critico razionalista della razionalità, ridotta a strumento di modellazione e semplificazione della realtà, quando viene svuotata della sua potenza ordinatrice. È il Musil che pensa, come e più arditamente dei suoi contemporanei, a una rifondazione dell’intero corso della civiltà occidentale a partire dall’inclusione nello spazio della comprensione intellettuale del «non razioide», dell’umano, della vita e dell’anima. Perciò dispiace che saggi così importanti, corredati anche da una bella postfazione di Donatella Capaldi e Giovanni Ragone, siano funestati da una traduzione (con testo a fronte!) che è ancora generoso definire approssimativa, in cui la comprensione dell’originale viene resa ardua e a volte impossibile dalle scelte improvvide del curatore e da una redazione superficiale che si lascia sfuggire addirittura, nel titolo tedesco di uno dei saggi, un errore madornale come aggiungere una c («Wircklichkeit»!) al sostantivo «Wirklichkeit», cioè realtà.

Fra i molti esempi che si potrebbero elencare (anche la famosissima citazione sulle farfalle e i cinesi inserita nelle righe precedenti la si è dovuta ritradurre, così come i continui spezzettamenti che nel saggio sulla nazione frammentano i lunghi e logici periodi musiliani in un balbettio di difficile comprensione) basti questo aforisma con cui Musil attacca un periodo del saggio sull’Europa: «Historisch ist das, was man selbst nicht tun würde», cioè «storico è tutto ciò che noi stessi non faremmo», che diventa un incomprensibile e sbagliato: «Storico è tutto ciò che non si farà mai da sé». Alcuni scambiano l’umiltà del tradurre per la presunzione del rifare.