Aprile 2020: il Partito Democratico di Moon Jae-in conquista una maggioranza storica alle elezioni legislative e guarda con fiducia alle presidenziali del 2022. La Corea del sud è indicata in tutto il mondo come un modello da seguire per la sua efficace gestione della pandemia da Covid-19. Seul aumenta il proprio soft power e si sente in grado di non dover scegliere Stati Uniti e Cina. Nonostante i summit degli anni precedenti non abbiano prodotto risultati concreti, c’è la fiducia che il dialogo con Pyongyang possa riprendere.

Aprile 2021: il Partito Democratico incassa una sonora doppia sconfitta alle elezioni municipali di Seul e Busan, le due principali città del paese. Il gradimento per Moon (34%) è ai minimi storici e l’opposizione conservatrice è favorita anche al voto del prossimo anno. Presa in mezzo tra Washington e Pechino, la Corea del sud appare sempre più come il possibile anello debole della strategia asiatica di Joe Biden. E sono tornati i test missilistici di Kim Jong-un.

In un anno, intorno alla Casa Blu, è cambiato pressoché tutto. In peggio. Il credito accumulato dal governo durante la prima ondata di coronavirus si è esaurito. Le restrizioni dopo la comparsa di nuovi focolai e i ritardi nella campagna vaccinale hanno incrinato la retorica del “modello coreano”, inizialmente basato (anche) sulle scarse limitazioni alle libertà personali.

Altri scandali hanno intaccato in modo forse irrimediabile l’immagine del governo. Moon aveva promesso che avrebbe abbassato i prezzi delle case, tema particolarmente caro agli elettori. Non solo non c’è riuscito, ma il suo principale consigliere economico, Kim Sang-jo, è stato costretto alle dimissioni dopo essere rimasto coinvolto in uno scandalo immobiliare. Moon aveva promesso anche che sarebbe stato un presidente “femminista”, altro argomento delicato in una società ancora profondamente patriarcale.

Eppure né lui né il Partito Democratico sono riusciti a prendere le distanze dalle accuse di abusi sessuali rivolte a Oh Keo-don e Park Won-soon, gli ex sindaci di Busan e Seul. Nel primo caso sono arrivate le dimissioni, nel secondo il suicidio. In entrambe le città, andate alle urne mercoledì 7 aprile, i candidati democratici sono usciti sconfitti con svantaggi siderali. Nella capitale torna in sella il conservatore riformista Oh Se-hoon, già primo cittadino tra il 2006 e il 2011. A Busan trionfa invece Park Heong-joon.

Se doveva essere un referendum su Moon, l’esito è lampante e potrebbe riflettersi anche sulla presidenziali del 2022. I conservatori, che avevano faticato a riprendersi dopo l’amaro epilogo della presidenza Park Geun-hye, sembrano aver trovato il nome giusto. Si tratta di Yoon Seok-youl, ex procuratore generale che ha lasciato il suo ruolo sbattendo la porta in protesta contro la riforma della giustizia voluta dal governo. A oggi, se si candidasse, secondo i sondaggi avrebbe un vantaggio di circa 18 punti nei confronti del possibile frontman democratico, il governatore del Gyeonggi (la provincia più popolosa del paese) Lee Jae-myung.

Alla debolezza interna corrisponde una rischiosa esposizione sul piano esterno. Biden punta sul rilancio delle partnership asiatiche per contenere la Cina e tra i primi risultati della sua presidenza c’è il rinnovo fino al 2025 dell’accordo per la condivisione delle spese militari utili alla permanenza di 28500 truppe statunitensi sul territorio sudcoreano.

Seul pagherà il 14% in più rispetto all’accordo precedente, che era stato messo a rischio da Donald Trump, giunto a esigere un aumento del 400% degli emolumenti. Nel 2019, per la prima volta dal 1961, sono saltate le esercitazioni militari congiunte e Moon ha iniziato a flirtare con l’idea di riappropriarsi del comando operativo in tempo di guerra, in mano agli Usa sin dai tempi della guerra di Corea.

Ma il ritorno sulla scena di Washington non ha trovato una Corea del sud pronta a inchinarsi al “big brother”, nonostante il rilancio del dialogo trilaterale che comprende anche il Giappone in materia di Corea del nord. Lo dimostra il recente tour di Antony Blinken e Lloyd Austin. A Tokyo i segretari di Stato e alla Difesa degli Usa avevano trovato un palcoscenico pronto ad asìcoltare le loro accuse alla Cina, a Seul nei comunicati e nelle conferenze stampa finali non v’è stata traccia di Pechino.

Circostanza che è stata notata, con compiacimento, dal Partito comunista. D’altronde, a pochi giorni di distanza (e contemporaneamente ai colloqui di Annapolis tra il consigliere alla Sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan e gli omologhi giapponese e sudcoreano Shigeru Kitamura e Suh Hoon) il neo ministro degli Esteri Chung Eui-yong ha incontrato il collega cinese Wang Yi. L’incontro è avvenuto a Xiamen, nel Fujian (meta dell’ultima ispezione di Xi Jinping), e si tratta della prima visita in Cina di un capo della diplomazia sudcoreana dal 2017, nonché del primo viaggio all’estero di Chung, promosso nel suo ruolo dopo aver lavorato per anni all’engagement della Cina nel dialogo intercoreano.

Seul sa che non può fare a meno di Pechino se vuole sperare di riavviare il dialogo con Pyongyang. Lo dimostra, da ultimo, la pronta telefonata di Xi a Kim subito dopo il “restart summit” in Alaska. Il tentativo è quello di mantenere un’autonomia strategica nei suoi rapporti con la Cina (ma anche con la Russia, visto che qualche giorno fa ha accolto Sergej Lavrov reduce dalla tappa cinese di Guilin), che nella versione di Moon vanno al di là del doppio binario rivalità strategica-partnership commerciale su cui viaggia Tokyo.

Il governo sudcoreano ha più volte ribadito di non voler scegliere da che parte stare e resta fermo sull’intenzione di non aderire al Quad, la piattaforma di dialogo quadrilaterale che riunisce Usa, Giappone, India e Australia. A Seul, d’altronde, si ricordano ancora i circa 7,5 miliardi di dollari persi per il boicottaggio cinese del 2017, in seguito all’adozione del sistema antimissilistico americano Thaad.

Non solo. È stato ribadito l’invito (che a Tokyo è stato presto stracciato dopo l’inizio della pandemia) a Xi di visitare Seul “non appena la situazione sanitaria sarà stabile” ed è stata aperta una nuova linea di comunicazione tra la marina sudcoreana e il comando del teatro orientale dell’Esercito popolare di liberazione. La cooperazione commerciale non si ferma neppure nel (delicato) campo tecnologico, come testimonia il recente acquisto di Magnachip Semiconductor da parte di un fondo cinese.

La sua definitiva approvazione dipende dalla decisione di un esecutivo la cui autorevolezza interna si va erodendo, con inevitabili conseguenze sulla sua proiezione geopolitica e, dunque, sulla sua capacità di mantenere una giusta distanza dai giganti che vorrebbero cooptarlo.