Adolphe Monticelli verso il 1880, foto di Camille Brion, collezione privata

 

«Viveva in una piccola stanza con un letto in un angolo, il cavalletto e due sedie. La luce veniva da una sola finestra drappeggiata con una tenda rossa. Tutto era illuminato di un color porpora che incantava il vecchio artista»: Adolphe Monticelli a Marsiglia, negli anni finali, in una delle rare testimonianze d’epoca (il pittore amico Paul Guigou). Non aveva un atelier, dipingeva in quella stanza e un giorno, al giovane collega Étienne Martin che lo accompagnava in un’escursione entusiasmandosi delle luci autunnali, esclamò con tono evangelico: «Sono io il centro luminoso, sono io che rischiaro». Sicuro: non è l’atmosfera, il plein air, a fare di Monticelli Monticelli, ma, come si è espresso uno dei suoi critici maggiori, Charles Garibaldi, la luce nella sua autonomia pittorica, la «luce in sé».
Lo vedremo, ma trastulliamoci ancora un po’ con quest’uomo singolare, la cui persona attira quanto il formicolare delle sue tavolette, quest’uomo «semplice, naïf, distratto», totalmente alieno dagli intrighi del mondo, che si accontenta di non patire la fame e di avere «la tavolozza ben guarnita»; che va in solluchero per la musica tzigana, da cui è spinto tassativamente a prendere in mano i pennelli; che al solo nome di uno dei maestri venerati (Tiziano o Rembrandt, Watteau o Fragonard, Corot o Delacroix), si inchina e si leva il cappello, e assume un’espressione talmente compresa che il mondo ne ride; che nel 1860, in una festa notturna allo Château Borely, vicino Marsiglia, rimane folgorato dall’imperatrice Eugenia, eleggendola a sua musa, la controparte ideale dell’amore ben più terreno, ma ugualmente impossibile, nutrito tutta la vita per la cugina Emma Ricard.
Non è da sorprendersi che van Gogh, così interessato ai rutilanti impasti di Monticelli, volesse esemplarsi anche sulla sua figura, al pari di un «figlio» o di un «fratello»: investimento morale. In una celebre lettera alla sorella Willemien immagina di andare a Marsiglia, «passeggiare sulla Canebière» foggiato alla bizzarra come il suo idolo, «con una grande aria meridionale». Aveva scoperto l’arte di Monticelli l’anno in cui questi morì, 1886: una specie di passaggio di testimone avvenuto a Parigi, nella galleria Delarebeyrette, rue de Provence, che ne deteneva l’esclusiva. Si stava rapidamente liberando della pittura nera e bituminosa dei suoi esordi olandesi con la rivelazione degli impressionisti: pur informati della divisione dei toni, i quadri di Monticelli, i fiori soprattutto, lo trattengono dall’esagerare in questa direzione, finezze ottiche solo in parte corrispondenti al suo temperamento. Ed eccolo sperimentare sui materici pots-pourris del marsigliese, tocchi a stria, viluppi di arabeschi da cui saetta «la luce in sé»: una lezione per il resto dei suoi giorni, accanto all’altra, complementare, dei giapponesi.
Fra le predilezioni di Vincent, quella per Monticelli, come si vede nelle Lettere, resta salda nel tempo, più di tutte le altre. Nel gennaio 1890, pochi mesi prima di morire, consiglia ad Albert Aurier, che gli aveva dedicato un elogio sul «Mercure de France», di disingannarsi sul suo conto: una frase come «è il solo pittore che concepisca il cromatismo degli oggetti con questa intensità, con questa qualità da metallo prezioso o da gemma» doveva rivolgerla non a lui ma a Monticelli (in effetti sia «metallo prezioso» che «gemma» richiamano innanzitutto Monticelli!). Fra le varie opzioni tecniche saggiate da Vincent a partire dal suo arrivo ad Arles (21 febbraio 1888), il ‘miscuglio’ alla Monticelli, che tanto inorridiva Gauguin, resta sempre un prezioso giustificativo alla pittura ruvida e brutale, alla gaucherie cui ha deciso di consegnarsi. Nell’agosto 1888, quando dipinge il contadino Patience Escalier, quasi spaventato di sé, del «colore arancio folgorante come un ferro rovente», dei «toni di vecchio oro luminoso nelle tenebre», chiede conforto a Theo, perché i parigini non potranno capire: «Che errore commettono col non saper apprezzare le cose rozze, i Monticelli, il mastice!… È un peccato che a Parigi non vi siano più quadri in zoccoli!».
Theo, che era mercante da Boussod & Valadon (ex Goupil), acquisisce, per la collezione personale sua e del fratello, sei Monticelli, oggi proprietà del museo Van Gogh di Amsterdam. Uno di questi, il vaso di fiori così spesso tirato in ballo nei paragoni con Vincent, è probabilmente il Monticelli donato ai due dall’antiquario di Glasgow Alexander Reid, loro amico, e testa di ponte, accanto a Delarebeyrette, per la curiosa fortuna scozzese del pittore. L’essersi isolato nel Midi escluse Monticelli, privo di mediatori, dai movimenti del mercato.
Nel 2008, a Marsiglia, una mostra mise a tema, studiosamente, l’amore di van Gogh per Monticelli. Se questo amore ha dato rinomanza al nome di Monticelli, non altrettanto alla realtà della sua opera: egli è divenuto, o un personaggio più o meno leggendario, o – per la storia dell’arte – un anello di congiunzione (tra Delacroix e lo stesso van Gogh). Posizione scomoda, cui hanno cercato di porre rimedio i conoscitori della sua opera, da Charles e Mario Garibaldi ad André M. Alauzen e Pierre Ripert, dall’americano Aaron Sheon a Sauver Stammegna, autore quest’ultimo del complicatissimo catalogo ragionato in tre volumi (1981-’87), e padre di Marc, che oggi, con la sua galleria di Marsiglia, è l’esperto più accreditato e collezionista di Monticelli formidabili: quel Lever de soleil, 1879, una specie di versione fangosa, ‘espressionista’, del Soleil levant di Monet!
L’ultimo volume del catalogo ragionato riguarda «i falsi Monticelli». Un vero problema: non esiste pittore più plagiato, e recentemente, in un pezzo d’affezione che è perla nella scarsa ricezione italiana, Ruggero Savinio ha raccontato di come incorse nell’errore comprando una sua opera, e di come sia venuto a sapere, consolandosene, che anche Maurice Ravel ci era cascato.
Nel 1953, con una mostra all’Orangerie des Tuileries, Germain Bazin volle trasformare Monticelli nel portabandiera di un più o meno supposto «barocco provenzale», da Fragonard al Cézanne del momento ‘romantico’. Un approccio discutibile nella sua pretesa di assunto, di tutto comprendere, anche se, a sfogliare il misero cataloghino da dopoguerra, non mancarono certo fra le opere convocate fulminanti richiami. In chiave monticelliana era stata scelta benissimo, di Fragonard, la Tête de vieillard del museo di Nizza, con la materia atomica e brulicante che smangia i contorni, proprio come nei ritratti, percorsi da una strana febbre, del marsigliese, di cui si sa la passione analitica per il pittore di Grasse. E sotto il segno di Frago vanno anche lette le rare concordanze di Monticelli con l’altro marsigliese Daumier, con le sue prove finali, davvero barocche, di forma aperta e sfrangiata.
Quanto a Cézanne, sotto l’insegna di «barocco provenzale» è stato fin troppo facile accostare il suo periodo pre-impressionista a Monticelli: rigetto totale delle convenzioni; corpo-a-corpo rodomontico con le procedure tecniche, fino allo sfregio; ricerca processuale dell’immagine. Dal punto di vista culturale, poi, la stessa ‘pazzia’ sotto il cielo turchino sferzato dal mistral, la stessa balordaggine di anime perse, che, nella forma comico-grottesca, dava luogo negli stessi anni, con Alphonse Daudet, al Tartarin deTarascon così dilettevole per van Gogh. Monticelli conobbe Cézanne? Sì, ed è quasi sicuro a Parigi, prima del 1870, anno in cui il disastro della guerra lo spinse a tornarsene in patria (a piedi!). Il marsigliese abitava nel quartiere dell’avenue de Clichy e frequentava, senza condividerne il piglio militante, le riunioni impressioniste del Café Guerbois, dove sicuramente incontrò Cézanne, ancora immerso nel libertinaggio pittorico del provinciale dai «grossi coglioni».
Monticelli, però, a questo punto della storia non è ancora il pittore convulso e materico che diventerà una volta tornato, in via definitiva, a Marsiglia. Al contrario di Cézanne, viene da una formazione accademica, seppur corretta dalle visite ai musei; si è sbrigliato nell’incontro con il barbizonnier Narcisse Díaz de la Peña, che dai luccichii dei suoi sottoboschi gli ha indicato la via dei grandi coloristi, in particolare di Delacroix, e al tempo stesso lo ha confermato, con l’altra vena della sua produzione, nel gusto per il mondo immaginario rococò, riscoperto – un vero e proprio revival – nei cenacoli romantici parigini: «Watteau Napoleone III», fu il nomignolo di Monticelli. La vicinanza con Diaz (anche fisica: a un passo i rispettivi atelier) produsse in Monticelli un’adesione quasi plagiaria. (Ottobre 2019, l’accrochage prima di un’asta a Parigi Drouot: una tavola minuscola, una cascatella di fiori, predominante rosa; fattura vaporosa e informale. Monticelli! Invece era Diaz. E quanti Monticelli degli anni parigini si scambiano per Diaz!)
Diventerà se stesso a Marsiglia, dove la scarsità di confronto con le ricerche contemporanee non lo inaridisce e anzi lo spinge a sperimentare in proprio, nel modo meno protetto e più radicale. È sulla metà degli anni settanta (Ottocento) che scattano certe rispondenze stilistiche con Cézanne, il quale, pur emancipatosi tramite Pissarro dalle intemperanze giovanili, non ha abbandonato la sua materia lourde, che anima con cromie ardenti e laccate. Proprio a Marsiglia, del resto, si incontrano di nuovo Monticelli e Cézanne, la prima volta nel 1878; ecco una vivida memoria dell’epoca: «Tutto a un tratto, sotto un colpo vigoroso, la porta si aprì con fragore, Cézanne si precipitò su Monticelli, lo abbracciò fino a soffocarlo, gesticolando con le sue grandi braccia in modi tutti disarticolati».
Quasi cercando nel buio un nuovo alfabeto, Monticelli, adesso, indirizza i suoi slanci alla resa plastica. Lavora su tavole o tavolette, spesso ricavate da vecchi mobili, di essenze le più varie. Non usa la spatola ma una pennellessa corta e dura, si aiuta con lo straccio e con le dita. La ricchezza sovrabbondante degli impasti, la loro eccessiva manipolazione (per Alauzen «un crogiolo in fusione»), rischiano, continuamente, di condurlo in zone cieche, e scrisse assai bene Pierre Courthion «tutto ciò che in altri sarebbe cucina grossolana, è in lui segreto d’alchimista». Non era dell’avviso Roberto Longhi: sempre simpatico con gli artisti a lui sgraditi, giudicò un Monticelli «intruglio da rigattiere»: mah! Lasciando da parte lo scadere qualitativo della produzione ultimissima – che, pur restando copiosa, risente gli effetti dell’emiplegia, poi mortali a sessantadue anni – e certa corrività nel genere galante, sicuramente l’essersi inoltrato su una terra inesplorata, diciamo ‘pittura gestuale’, non di rado conduce Monticelli al fallimento: ma è il fallimento, caro a Giacometti, dell’artista senza stellette da difendere e raggiungimenti da amministrare. Insomma, l’artista moderno.
Monticelli, amato dagli scrittori: Verlaine, Wilde, Mirbeau, Robert de Montesquiou e, per suo tramite, Proust… Benjamin convoca spettralmente Monticelli nel racconto su un artista tossicomane che gli è adepto. Émile Verhaeren ritrova la sua pittura al vecchio mercato del pesce di Marsiglia, guardando «brillare al sole», «sulle bancarelle rosse», «i pesci azzurri e i crostacei di madreperla». Sì: pittore di bagliori, pulsano lo smeraldo e il vermiglio dalla base untuosa e torturata, come piaceva a van Gogh ma anche a Soutine, e come ritroviamo, si parva licet, nel piccolo maestro lionese Georges Bouche.
Negli anni di Marsiglia, a metà giornata, lascia l’atelier con qualche quadro sotto il braccio e – vediamolo come lo vide van Gogh: con l’«immenso cappello giallo» e il «bastoncino di vimini» – si avvia sulla Canebière fino alla Borsa, ai bar affollati da agenti mediatori. Vende in proprio, con un esatto prezzario, pas mal. Passando gli anni non fa più tanta strada, si ferma al Café Plauchut, i clienti scarseggiano, abbassa i prezzi: giunta la sera resta a un tavolino, davanti a un bicchiere di assenzio. Si è abbastanza speculato letterariamente su questa ‘scena’ monticelliana, ma noi… speculiamo e concludiamo.