Nel 1894, i legislatori dello stato del Mississippi posizionarono nel quadrante in alto a sinistra della bandiera di rappresentanza l’emblema confederato, una lettera X di colore blu che includeva tredici stelle bianche. Quel simbolo è definitivamente tramontato con tre atti formali di enorme rilevanza: il 28 giugno 2020 la classe politica attualmente al governo, guidata dal repubblicano Tate Reeves, ha abolito la vecchia livrea contenente il logo della discordia; il successivo 3 novembre, in concomitanza con l’elezione di Joe Biden, la popolazione dello stato chiamata al referendum ha approvato la nuova bandiera proposta con il 72,98% di voti favorevoli; l’11 gennaio 2021, sempre Reeves, ha ratificato il vessillo che ha iniziato ufficialmente a sventolare in cima al Campidoglio di Jackson, la capitale dello stato. Fine dei giochi quindi per l’icona simboleggiante la segregazione razziale, i linciaggi e ogni aspetto della stagione Jim Crow subito dalla comunità african american.

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Con l’addio alle tredici stelle, passa idealmente in archivio anche la melodia confederata The Bonnie Blue Flag scritta da H. McCarthy e resa nota dall’Old South Quartette. Brillano invece di una luce sfavillante la pletora di incisioni che in modo più o meno sommesso o palese, nel corso dell’ultimo secolo hanno preso posizione contro il razzismo. Vale la pena rammentarne qualcuna, oltre i consueti titoli oramai storicizzati e rintracciabili, come l’imprescindibile Mississippi Goddam di Nina Simone, nelle ben note compilazioni che riguardano il Civil Rights Movement. Se l’esplicito richiamo alla bandiera razzista era troppo rischioso, si poteva osare con cautela citando Jim Crow, il «mostro» per antonomasia. Meravigliosamente lo fanno Big Bill Bronzy in Black, Brown and White, Leadbelly con Jim Crow Blues, Maggie Jones in North Bound Blues e Josh White con Jim Crow Train. Non sono da meno Texas Alexander con Levee Camp Moan Blues e Champion Jack Dupree in I‘m Going to Write the Governor of Georgia. Considerevole il valore di dischi come Blues in the Mississippi Night dove ancora Big Bill Bronzy, Memphis Slim e Sonny Boy Williamson sintetizzano decenni di oppressione, Freedom Creek di Willie King & The Liberators, All for Business di Jimmy Dawkins e la raccolta Can’t Keep from Crying del 1964 dove vari artisti cantano ad memoriam dell’assassinio del presidente Kennedy. Foriero di quanto accaduto poi, è stato nel 2015 il brano Mississippi, It’s Time di Steve Earle, dove l’autore esorta a gettar via il vecchio stendardo.

COSTA EST, COSTA OVEST
A questo epocale cambiamento si è giunti grazie alle proteste esplose in tutti gli Usa dopo l’omicidio di George Floyd, il 25 maggio 2020. La forza del movimento Black Lives Matter si è palesata non solo sulle coste est e ovest, nelle roccaforti democratiche e dei bianchi progressisti. È andata ben oltre New York, le ricche città californiane e la ventosa Chicago. Ha raggiunto Alabama, Georgia, South Carolina e Louisiana, lasciando un segno a New Orleans, dove la giunta comunale ha approvato la cancellazione dalla toponomastica cittadina di nomi legati alla Confederazione. Ma ancor più è accaduto in Mississippi, dove il BLM si è contraddistinto per una spiccata presenza giovanile e una notevole rappresentanza femminile, risultata essere la spina dorsale del movimento. Le manifestazioni hanno riguardato l’intero territorio, dalla settentrionale e universitaria Oxford fino alla marittima Gulfport nel sud, passando per la Jackson, dove il 5 e 6 giugno si è svolto il più grande corteo dalla Freedom Summer del 1964. E la partecipazione veemente e sentita di migliaia di persone, ha rappresentato la spallata definitiva alla vecchia bandiera in favore della nuova, all’interno di cui si è cercato di fare i conti con un ulteriore e ingombrante passato. Oltre la magnolia contornata da venti stelle che ricordano come lo stato fosse il ventesimo dei futuri Usa, ne spicca una ventunesima d’oro che è un omaggio doveroso alla cultura dei nativi autoctoni Choctaw. Il percorso di abbandono della simbologia legata alla White Supremacy aveva in realtà già avuto un inizio nel 2001, ma i tempi non erano maturi, e ancora oggi fiancheggiatori e membri della destra razzista stanno tentando di rimettere in discussione la scelta presa. Che la supremazia bianca sia realtà, lo conferma Ralph Eubanks, docente alla University of Mississippi e autore di saggi e libri, tra cui A Place like Mississippi dove relaziona i grandi autori della letteratura americana di ieri come Faulkner e Welty, provenienti dal Delta, a quelli odierni: «Il cambio di bandiera è un gesto significativo, non solo per la comunità nera, ma per ogni abitante. Tutti aspettavamo di averne una che fosse per chiunque viva nella nostra terra e non solo per i bianchi che ancora mantengono legami con la confederazione. È un fattore di peso che voglio sottolineare, in quanto evita all’intero stato di essere ancora agganciato a una bandiera connessa con un simbolo legato alla supremazia bianca. Una cosa che dimentichiamo spesso, è che la White Supremacy esiste ancora oggi, rimanendo uno degli elementi al contempo più malleabili e persistenti nella società americana e di come il potere duraturo che mantiene, non smetta di infliggere danno, sopravvivendo nel paese. Tante persone continuano a negarne l’esistenza, mentre è ancora parte della quotidianità. Quindi, è importante per i neri del Mississippi vivere sotto una bandiera che non sia simbolo di supremazia bianca».

IL CONFLITTO
Le parole di Eubanks rammentano come il Mississippi rappresenti storicamente sia il luogo da cui il movimento dei diritti civili è partito, che quello in cui esiste un conflitto mai risolto nella coscienza pubblica statunitense, un buco nero guardato con distrazione e complice distacco dal resto del paese. Situazione questa che ha sempre prestato il fianco al protrarsi in un tempo indefinito di qualsiasi cambiamento sociale: non casualmente alcuni slogan del Civil Rights Movement ruotavano su espressioni come «Wait» (aspetta) e «Slow down» (rallenta), a conferma di come un’atavica lentezza rendesse quasi indistruttibile l’era Jim Crow.
Bobby Rush, decano della scena blues mondiale con una effervescente attività artistica che gli ha permesso di aggiudicarsi due Grammy negli ultimi anni, nonché di pubblicare in queste settimane I Ain’t Studdin’ Ya: My American Blues Story, una biografia cruda e diretta, così si esprime in merito: «Penso che il cambiamento della bandiera abbia un gran significato sia per i neri che per i bianchi, in quanto ognuno aveva realizzato che ci fossero molte cose sbagliate all’interno della precedente. Sia chiaro, tutti sapevano bene cosa rappresentasse per noi neri. È per questo che credo sia importante spiegare oggi davanti a quale situazione siamo: mi ricorda quella di una moglie e un marito, un picchiatore bianco, che impara a non usare più violenza contro di lei. Lui resta un bianco aggressivo che ha solo deciso di non picchiare più la moglie. Voglio dire che è sicuramente un bene aver cambiato bandiera, ma ci sono tante persone che hanno ancora quel vecchio simbolo negli occhi, che quindi ti trattano come vogliono e inoltre, la percepiscono e usano come preferiscono e come gli è più comodo trattarla. E posso dire questo perché, sia come afroamericano che come musicista, esattamente come accaduto a Floyd, ho avuto un piede sul collo per tutta la vita. Ma adesso che tutte le vite contano, neri, bianchi, ispanici, posso dirti che se iniziamo a trattare gli altri come vorremmo per noi stessi, possiamo fare la differenza, con amore e rispetto».