In un paio d’anni il «re degli hipster» Ariel Pink si è meritato, un’intervista sventurata dopo l’altra, numerosi articoli di biasimo e il titolo di «Robin Thicke dell’indie pop» (su thefourohfive.com nel dicembre scorso. Thicke è la popstar di Blurred Lines, i cui testi e video sono stati criticati aspramente per contenuti misogini e promotori della «cultura dello stupro»).
È iniziato tutto nell’agosto del 2012. In una intervista con The Wire, Pink afferma che «i maschi beta hanno risolto in modo da non dover cacciare o stuprare la loro preda, per così dire». Quello che intende è che il maschio «beta» (un termine per indicare un uomo meno dominante e quindi socialmente inferiore, e che egli applica a se stesso) ha trovato modi più sottili ed efficaci per portarsi a letto le donne rispetto ai maschi alfa (dominanti), cioè esercitando il suo intelletto e la sua cultura al posto dei muscoli. Con l’implicazione che gli uomini possono, anzi dovrebbero, al fine di conquistare una donna, fingere compassione con la rabbia femminile nei confronti della misoginia tradizionale istituzionalizzata. La storia («la vendetta dei maschi beta») si riduce ancora una volta ad una competizione tra uomini, in cui la donna è, come sempre, l’intermediaria, lo strumento di vendetta, la trophy wife (moglie trofeo). Che l’ambizione di Pink, nonostante la sensibilità sventolata, sia di avere una «moglie trofeo» è cosa confermata da una intervista per The Fader (sempre nell’agosto del 2012) in cui la star dai capelli rosa dichiara: «Voglio avere abbastanza soldi per (mantenere) un’altra persona o due. Voglio mantenerle mentre loro, sai, stanno a casa a friggere le patatine e fare figli (…) Sono un tipo all’antica». Non contento delle critiche ricevute, nel settembre del 2014, in un’intervista per Pitchfork, Ariel Pink dichiara: «Tanto varrebbe che fossi una ragazza, ok? Quando cammino per strada di notte, non sono meno vulnerabile o spaventato di una ragazza. E puoi trovare statistiche che dicono che ci sono più uomini stuprati negli Stati Uniti ogni anno che donne» (affermazione subito dopo da lui stesso riconosciuta come «cazzata»).
Un conservatore (per lo meno per quanto riguarda le politiche di genere) accettato (anzi, idolatrato da molti) nella scena indie «progressista» e culturalizzata. «Che gli artisti credano veramente che la misoginia, il razzismo (un disco di Ariel Pink si intitola «Ku Klux Glam», ndr), l’antisemitismo e l’omofobia siano in qualche modo trasgressive nel 2014 è del tutto sconcertante», scrive Alanna McArdle su pitchfork.com («La “barzelletta» di Ariel Pink non è più divertente» è il titolo dell’articolo).
La «misoginia hipster» è palese tanto quanto è condonata. Mentre nella scena hip hop il sessismo è più ostentato (e quindi più condannabile e condannato), nella scena indie è più subdolo, mascherato addirittura da atteggiamenti pro-femministi. E quindi riesce spesso a «sfuggire» alle critiche. Come scrisse però l’autrice femminista bell hooks nel 1994, seppur i maschi neri debbano senza dubbio essere ritenuti responsabili politicamente per la loro misoginia, non si deve far passare l’idea che il sessismo, «lo stupro, la violenza maschile contro le donne ecc., sia una cosa che riguarda (solo) i maschi neri». E questo succede nella musica pop: si usano due pesi e due misure nel caso di musicisti neri/hip hop e bianchi/rock.
Uno degli aspetti principali della cultura «hipster» è l’appropriazione di stili e manufatti rubati alle varie minoranze/sottoculture (un po’ di cultura black, un po’ di cultura gay, un tocco di working class e così via). Ma è un’appropriazione superficiale e approssimativa (anche perché gli hipster in genere non appartengono a nessuna di queste minoranze), svuotata dei significati originari, acritica. Gli hipster (usiamo i termini hipster e indie per indicare lo stesso bacino demografico) sono inoltre caratterizzati da un atteggiamento «ironico» (spesso autoironico, e perfino autodenigratorio). Si sentono autorizzati ad usare un linguaggio sessista, razzista e omofobico perché loro lo fanno «in modo ironico», e perché i «veri» razzisti, sessisti, omofobi non sono loro ma gli «altri» (i conservatori).
Nel maggio del 2011 Sara Kiersten Quin, del duo indie pop canadese Tegan and Sara, posta sul loro sito una lettera aperta (intitolata «A call for change», un appello per il cambiamento) che inizia così: «Quando gli sproloqui e i deliri misogini e omofobici si concluderanno con delle ripercussioni significative nell’industria dell’intrattenimento? Quando saranno trattati con la stessa serietà delle offese razziste e antisemite?».
La lettera è stata scritta in risposta agli applausi quasi unanimi della critica (il solito Pitchfork in testa, ma anche il New York Times) e del pubblico indie (prevalentemente bianco e privilegiato) alla produzione artistica di Tyler, The Creator, un rapper giovanissimo (vent’anni nel 2011), leader del collettivo hip hop Odd Future. Tyler usa frequentemente nei suoi testi (e su Twitter) termini omofobi («faggot», frocio) e sessisti («bitch», cagna o troia), oltre a descrivere scene grafiche di violenza contro le donne. Riviste quali Time Out Chicago e The Guardian hanno sottolineato come lo stupro sia un «tema predominante» di Goblin (il suo disco di debutto, 2011). Nello stesso album The Fader ha contato ben 68 volte l’uso del termine «bitch». Ciò non ha impedito a gran parte della critica (bianca) di lodare gli Odd Future per la loro genialità, innovazione e prolificità.
«Perché dovrebbe importarmi di questa musica o della sua “genialità” quando il messaggio è così ripugnate e irresponsabile?» si chiede Sara nella lettera «(…) è Tyler esente (dalle critiche) perché la gente ha paura delle ripercussioni? L’asserzione inevitabile che i detrattori sono razzisti, o (…) non “capire” indicherebbe che sei “vecchio” (o un frocio)? (…) Chi prende le difese delle donne e dei gay ora? Sembra completamente da sfigati farlo nel mondo indie rock (…)».
Le risposte ad eventuali critiche femministe a canzoni sessiste o omofobiche le conosciamo: «sei troppo sensibile«, «hai un atteggiamento negativo nei confronti del sesso», «non hai senso dell’umorismo», «hai le tue cose?», «si tratta di arte e tu vuoi censurarla», «sei troppo politicamente corretta», «ci sono problemi peggiori al mondo» ecc.
Tyler ha risposto alla lettera di Sara con un tweet: «Se Tegan e Sara hanno bisogno di un cazzo duro, che mi contattino!» (ps: sono entrambe lesbiche).
Ma queste cose accadono solo negli altri paesi, no? No. La «nostra» scena indie è ugualmente colpevole. Un caso italiano simile a quelli citati è Edda (al secolo Stefano Rampoldi, ex Ritmo Tribale), il cui ultimo album Stavolta come mi ammazzerai? (2014) è stato quasi unanimemente applaudito dalla critica specializzata nazionale, per nulla infastidita dai testi platealmente sessisti (o dalla musica). Nei testi di Stavolta come mi ammazzerai? (ma la stessa cosa si può dire per i suoi dischi precedenti, o per l’iconografia, vedi la copertina di Odio i vivi) le figure femminili (e il sesso) sono trattate quasi sempre in termini negativi: «Lo sai o non lo sai/la ragazza fa l’attrice porno/lei è una succhiacazzi/ma è quello che io voglio/fammela venire, fammela venire/con le sue facce da troia» (Ragazza porno); «So anche che tu sei solo pelle e fica» (Stellina); «Perché sei una puttana da un euro/Che non vale mille lire» (Puttana da 1 euro).
Ma nel nome di una presunta «autenticità» o «genialità» espressa dall’underdog (perdente) arrabbiato di turno non solo questi vengono «graziati» per i loro testi (o affermazioni) sessisti, ma esaltati.
Ecco dieci artisti «indie rock» che hanno dimostrato, attraverso i testi delle loro canzoni e/o attraverso affermazioni pubbliche, atteggiamenti misogini (ne potete trovare altri su misogynisticlyricsthatarentrap.tumblr.com).

FUORI LE CANZONI

Ariel Pink: «Black Ballerina»
Delle sue esternazioni misogine abbiamo riferito largamente nell’introduzione. Alla luce di tali interviste, versi come quelli di Black Ballerina, dall’album Pom Pom (4AD, 2014), appaiono per lo meno controversi: «Andiamo, metti il tuo collare da cagna, (…) andiamo, togliti il reggiseno e le mutandine, Condoleezza, arrapami (…)». È chiaro che nel brano si fa riferimento a una spogliarellista, ma altrettanto chiare sono le allusioni a Condoleezza Rice, celebre politica ridotta qui poco rispettosamente a pura fantasia sessuale. Ironia? A noi non fa ridere.
Tyler, The Creator: «Bitch Suck Dick»
Il leader degli Odd Future Wolf Gang Kill Them All (nome completo del collettivo hip hop), nonostante la giovane età, è già in possesso di un ingente arsenale di rime che celebrano violenza (verso le donne), stupri, e omicidi. Abbiamo scelto quelle di Bitch Suck Dick, dall’album Goblin (XL, 2011): «Colpisci la tua cagna in bocca solo perché dice delle cagate», «Sono gelido cagna, non guardare il mio polso/perché se lo fai, posso accecarti cagna». AssMilk (dal mixtape Bastard, 2009) è ancora più agghiacciante: «Avere una cagna, pronto a pugnalare una clitoride con del vetro (…)»; «Che si fotta il rap, farò l’affittacamere, così da poter stuprare le figlie degli affittuari/ lasceranno la mia casa con un nuovo stomaco, e un bambino dentro«; «(…) allora quando stupro una cagna la tengo ferma (…)». Tolto l’«effetto shock», vecchio quanto il primo album di Eminem, rimangono solo uomini che odiano le donne.
Weezer «No One Else»
Rivers Cuomo, leader dei losangelini Weezer, si è meritato il titolo di «worst boyfriend ever» (peggior fidanzato di sempre) sul blog myswimsuitissues. Il motivo? Cuomo, al contrario di Tyler, non stupra e non uccide donne nelle sue canzoni. È però, al pari di Ariel Pink, un «maschio beta» hipster affranto dal fatto che gran parte delle donne, a cui affibbia la colpa dei suoi insuccessi (sentimentali e sessuali), non riesca a vedere la sua «anima sensibile». Cosa rende questi uomini infidi? Il fatto che, di primo acchito, sembrino venerare le donne. Sono ossessionati da figure femminili così idealizzate che mai potrebbero trovare un corrispettivo nella realtà, rendendo la delusione inevitabile. Sono anche possessivi a livello patologico, come dimostra il brano No One Else (dal Blue Album del 1994): «Voglio una ragazza che non rida per nessun altro/Che quando sono via lasci il suo makeup sullo scaffale/ Quando sono via non lasci mai casa (…)». Ovviamente a queste parole le donne che escono con Cuomo scappano a gambe levate, e lui, abbandono dopo abbandono (lui è sempre la vittima, chiaro), odia sempre più il genere femminile.
The Decemberists «A Cautionary Song»
Gran parte dei brani dei Decemberists, band indie folk da Portland che feticizza la vita di fine Ottocento (misoginia inclusa), parlano di donne rapite, schiavizzate, violentate, picchiate, torturate o fatte a pezzi (Odalisque, da Castaways and Cutouts; The Bachelor and the Bride, da Her Majesty The Decemberists; The Island, da The Crane Wife ecc). I testi sono oscuri e spaventosi, ma con la variante di essere ambientati nel diciannovesimo secolo e scritti con linguaggio forbito, quindi più distanti dalla realtà e più «digeribili». E poi anche Colin Meloy, il frontman del gruppo, usa la vecchia scusa dell’«ironia» (da una intervista del 2006 per Venus Zine: «Non sono un misogino. Non sono uno stupratore (…) La gente dovrebbe essere capace di vedere l’ironia»). Sei giustificato a dire qualsiasi cosa insomma, basta che tu non faccia «sul serio». A Cautionary Song (dal primo album Castaways and Cutouts, 2002), è un canto marinaresco su una madre single che si prostituisce a una gang di marinai crudeli per mantenere i suoi bambini. La scena descritta fa pensare a uno stupro di gruppo: la donna, che all’inizio della canzone è «in lacrime», viene imbavagliata per impedirle di «parlare o urlare», e minacciata di non confidare niente a nessuno o «finirà morta». Immaginate la stessa storia ambientata ai nostri giorni e raccontata con un linguaggio moderno: riuscirebbero i Decemberists a farla cantare allegramente in concerto da un pubblico di ragazzi bianchi pretenziosi? Non crediamo. Ma, nello spazio offerto dalla musica della band, ascoltatori solitamente «politicamente corretti» (progressisti, di classe medio-alta, acculturati e prevalentemente bianchi) possono godere senza complicazioni di fantasie violente e misogine (in modo simile al godimento dei critici bianchi per gli Odd Future: non sono cose che riguardano noi, riguardano i ghetti neri o le città portuali di fine Ottocento!).
Good Charlotte: «Girls & Boys»
La scena emo dei primi anni Duemila è piena di ragazzi melodrammatici colmi di odio per le ragazze che hanno spezzato loro il cuore, e questo brano della band pop punk americana Good Charlotte (dall’album The Young and the Hopeless, 2002) parla proprio di questo. «Alle ragazze non piacciono i ragazzi/alle ragazze piacciono le auto e i soldi», cantano i fratelli Benji e Joel Madden, congedando l’intero genere come niente più di cacciatrici di dote, interessate solo alle «vacanze e allo shopping compulsivo», le donne attraenti più di tutte le altre naturalmente («Alle ragazze con i corpi sexy piacciono i ragazzi con le Ferrari»). E come ottengono quello che vogliono queste ragazze? Con il sesso, chiaro («She’ll get what she wants/if she’s willing to please»).
Fall Out Boy: «Nobody Puts Baby in the Corner»
Sempre in ambito pop punk/emo troviamo i Fall Out Boy. Lo stesso Pete Wentz, autore di gran parte dei brani, ha ammesso in un’intervista che «i testi dei FOB era roba assai deprimente e misogina». Un esempio? Nobody Puts Baby in the Corner (da Under the Cork Tree, 2005), che parla di una amante: «Allora indossami come un medaglione attorno alla tua gola/ti appesantirò/ti guarderò soffocare/sei così bella blu». Peggio ancora è la piagnucolosa Tell that Mick He Just Made My List of Things to Do Today, su una ragazza a cui il protagonista augura la morte perché l’ha lasciato per un altro uomo («giochiamo a questo gioco chiamato ‘quando prendi fuoco’/ non ti piscerei addosso per estinguerti»).
Death Cab for Cutie: «I Will Possess Your Heart»
In una lista di «canzoni da stalker», I Will Possess Your Heart della band indie/emo Death Cab for Cutie verrebbe subito dopo Every Breath You Take dei Police. Inizia così: «Come mi piacerebbe che tu potessi vedere il potenziale/il potenziale di te e me/è come un libro rilegato elegantemente, ma (scritto) in una lingua che non puoi leggere». Caro Ben Gibbard (leader del gruppo), non ti passa per la mente che forse lei sa leggere, ma semplicemente non le piaci? E poi: stare in agguato fuori dalla sua finestra non ti farà conquistare il suo cuore, ma ti può far conquistare un’ingiunzione restrittiva («Ci sono giorni in cui, fuori dalla tua finestra/vedo il mio riflesso»). Il finale è piuttosto chiaro: «Tu respingi le mie avances e suppliche disperate/Non ti permetterò di deludermi così facilmente». No significa no, caro Ben.
The Beastie Boys: «Girls»
Continuiamo con un classico, Girls dei Beastie Boys, dal loro album di debutto Licensed to Ill del 1986. In questo caso non ci sono sfumature: «Ragazze, lavate i piatti/Ragazze, pulite la mia camera/Ragazze, fate il bucato». Gli stessi Beasties si sono scusati, in «età adulta», per la loro (passata) palese mancanza di rispetto nei confronti del genere femminile e degli omosessuali. Ad esempio, nel 1999, tramite una lettera di Ad-Rock (Adam Horovitz, voce e chitarra) pubblicata da Time Out New York. La sua relazione con la musicista e attivista femminista Kathleen Hanna (sono sposati del 2006) l’avrà portato senza dubbio a riflettere sugli errori di gioventù.
Nick Cave: «Where the Wild Roses Grow»
Cave è ossessionato dalle storie di donne assassinate. Prendiamo Where the Wild Roses Grow (da Murder Ballads di Nick Cave and the Bad Seed, 1996), in cui duetta con Kylie Minogue. In questo brano Cave si prodiga per sedurre la donna perfetta: la sposa cadavere. Come in una qualsiasi «murder ballad» tradizionale, in Where the Wild… una ragazza povera e candida viene sedotta, uccisa e abbandonata. L’omicidio rimane impunito, e l’autore del crimine sembra non essere pentito o disturbato dalle sue azioni. La donna è ricordata non con il suo nome, Elisa Day, ma con il nomignolo «rosa selvaggia», e la sua morte viene considerata inevitabile perché «la bellezza deve morire». È chiaro che Nick Cave interpreta un ruolo in Where the Wild Roses Grow, e che non se ne va in giro a colpire graziose teste femminili con una roccia, ma tra interviste e copertine di dischi, è altrettanto chiaro che l’artista australiano ha qualche problemino nel rapportarsi con le donne. L’album più recente (2013) dei Bad Seeds, Push the Sky Away, ha una copertina discutibilissima: in una stanza si trovano un uomo completamente vestito (lui) e una donna completamente nuda (la moglie); lui sta chiaramente ordinando qualcosa a lei, che sembra vergognarsi mentre si copre la faccia e il seno (ma non la vulva). Un’immagine che non oggettivizza per nulla il corpo femminile, tranquillo Nick.
NOFX: «Creeping Out Sara» La punk rock band californiana NOFX è da sempre incorreggibilmente politicamente scorretta. Pescando nel mucchio delle loro canzoni misogine, omofobiche ecc., salta fuori questa Creeping Out Sara (dall’album Coaster, 2009), dedicata, guarda un po’, a Sara del duo Tegan and Sara. Nella canzone Fat Mike ci prova con una delle due sorelle (non sa bene quale neppure lui), nonostante sia al corrente del fatto che siano entrambe lesbiche, e le chiede se ha mai fatto una «cosa a tre» con la gemella. Stupisce che, vista la lettera scritta da Sara al rapper nero Tyler, nel caso in questione la replica del duo al brano dei (bianchi) NOFX sia stata piuttosto debole (un tweet in cui dicono di aver scambiato un sacco di email e telefonate con i NOFX, un apprezzamento al disco della band californiana Punk in Drublic e un’ammissione che sì, la canzone ha fatto venire i brividi a Sara). Due pesi e due misure?