Dalle pagine di questo giornale ci si interrogava ieri sulla discrepanza dei dati pubblicati nella tabella riepilogativa del ministero e quelli che era possibile ricostruire attraverso le note mensili, notando come già solo per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, al netto delle cessazioni, si riscontrava una differenza di circa 303mila contratti.
A guardare la nuova tabella pubblicata ieri si evince che al netto di alcune revisioni, avevamo fornito una stima corretta dell’errore e quindi un calcolo della situazione consistente con la realtà. I contratti netti a tempo indeterminato tra gennaio e luglio di quest’anno sono 117.498 (non oltre i 420mila come pubblicato ieri). Guardando il totale relativo a tutte le tipologie contrattuali si nota che i nuovi rapporti netti di lavoro sono 1.136.172 e non 2.331.853. L’errore stava dunque nei calcoli, non nelle operazioni di revisione (che separano lievemente le stime fornite ieri sul manifesto dai dati effettivi).
Secondo la composizione per tipologia si nota che solo il 10% dei contratti sono a tempo indeterminato, l’87.3% a termine, l’apprendistato e i contratti classificati come «altro» rappresentano rispettivamente il 3.4% e il 2.2% dei contratti. Il giudizio sulle riforme del governo rimane stabile.

La notizia quindi sta nell’errore considerevole commesso dallo staff del ministero del lavoro pubblicando una tabella completamente errata. Distrazioni ed errori di calcolo sono possibili, ma è inammissibile che un ufficio statistico non controlli prima di dare notizie in pasto alla stampa. L’entità dell’errore avrebbe dovuto far sobbalzare chiunque in questi mesi abbia seguito le dinamiche del mercato del lavoro, tecnici del ministero o giornalisti che siano.

Nel frattempo, se è vero che l’ufficio stampa del ministero ha inviato nel pomeriggio di ieri un’agenzia alle redazioni allegando la tabella corretta, è altrettanto vero che inizialmente la giustificazione a tali discrepanze, fornita sulle pagine di Repubblica in un articolo a firma di Valentina Conte, è stata del tutto inadeguata. Inizialmente il dato non è stato smentito ma giustificato in base al fatto che le informazioni contenute nel sistema vengono costantemente aggiornate. Ma le revisioni non possono certo stravolgere i dati seppure provvisori forniti a venti e quaranta giorni dalla chiusura del mese di riferimento, altrimenti significherebbe che le imprese possono comunicare avviamenti e cessazioni di rapporti di lavoro con dilazioni temporali che non permettono nessuna valutazione dell’andamento del mercato di breve periodo e quindi delle riforme, rendendo il sistema statistico semplicemente inutile. Nella stessa dichiarazione non emerge mai il beneficio del dubbio: «Fa così anche l’Istat, ma nessuno obietta mai», la difficoltà a capire i dati da parte dei cittadini è il prezzo da pagare, spiegava ancora il ministero, «per aver voluto diffondere gli aggiornamenti una volta al mese, anziché ogni trimestre».
Falso! L’Istat pubblica ogni mese i dati e si premura di fornire il mese successivo le eventuali revisioni. Il ministero del lavoro potrebbe prendere esempio dal metodo Istat. Senza lamentarsi della frequente pubblicazione dei dati, che servono ai cittadini proprio per rintracciare gli errori ingiustificabili di calcolo. E diradare un po’ la nebbia provocata da mesi di propaganda.