Il Def proposto da Giancarlo Giorgetti è stato approvato dal consiglio dei ministri in un’ora, senza sorprese. La sola voce dissonante viene dal Fmi, le cui previsioni sono un po’ più pessimistiche di quelle del governo italiano. Nel documento la crescita del Pil di quest’anno è fissata, come già anticipato, allo 0,6% (pari a 1 nel Pil programmatico): tre decimali in meno delle stime di novembre. Per il Fondo monetario, invece, il miglioramento sarà di un solo decimale, 0,7%. Si vedrà nei prossimi mesi chi si è avvicinato di più al dato reale. Stime al ribasso invece per l’anno prossimo: dall’1,9% all’1,4%, mentre dovrebbero essere rispettati i calcoli di novembre per i due anni seguenti.

Non è mai successo, in decenni recenti, che le cifre del Def non fossero riviste e modificate anche profondamente dalla Nadef in settembre. Sarebbe dunque poco realistico azzardare anticipazioni sulla prossima legge di bilancio sulla base dei numeri sfornati ieri da Mef e governo. Una cosa però si può dire con certezza: ci sarà pochissimo da scialare. La prossima finanziaria sarà austera quanto la precedente.

Il ministro dell’Economia Giorgetti ha confermato il rapporto deficit/Pil al 4,5% indicato nello scorso novembre. Invariata anche la tabella di marcia per i prossimi anni: 3,7% nel 2024, 3% nel 2025, 2,5% nel 2026. Il governo ci tiene però a sottolineare col pennarello rosso «gli effetti di riduzione del rapporto debito/Pil che si sarebbero potuti registrare senza il superbonus». Il deficit tendenziale dovrebbe però essere più basso, al 4,35%. In questo modo il governo avrà a disposizione 3 miliardi in deficit da investire sul taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti a reddito medio-basso già da quest’anno. Il governo punta a ristorare le fasce più povere garantendo però la «moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi». Che poi sarebbe in realtà prezzi-salari: i prezzi saliranno, anche se in misura decrescente rispetto all’inflazione dei mesi scorsi (salvo spiacevoli sorprese), i salari invece no. Il documento fissa anche una progressiva riduzione della pressione fiscale, ma con massima prudenza. Quest’anno si attesterà al 43,3%. Nel 2026, se tutto va bene, sarà scesa di 6 decimali: 42,7%.

Anche il rapporto debito/Pil del 2022 è risultato migliore del previsto: è pari al 144,4%, dunque meno oneroso delle stime nella misura di 1,3 punti percentuali in meno. Su questo fronte, quello sul quale l’Unione europea è più occhiuta e la Germania chiede di stringere anche di più le maglie, la tabella di marcia è a tappe forzate: 142,1% quest’anno e poi via a scendere di corsa per toccare il 140,4% nel 2026. Per quanto la destra continui a promettere riforme epocali, con questi obiettivi l’austerità accompagnerà il cammino del governo Meloni ancora a lungo.

Al di là dei numeri lo stile è quello prudentissimo di Giancarlo Giorgetti. L’economia italiana «continua a dimostrare una notevole dose di resilienza e vitalità» però in un quadro che «rimane incerto e rischioso»: per la guerra, per le tensioni internazionali, per la stretta sui tassi d’interesse, per gli scricchiolii «localizzati» nel sistema bancario. E anche, anzi soprattutto, per il Pnrr, pur se questo il documento non lo dice apertamente.

Quando si arriva alla nota dolente, il testo partorito dal governo diventa vago e reticente: «Governo al lavoro per ottenere la terza rata» dei fondi europei, e ci mancherebbe altro, «interlocuzioni per la revisione e rimodulazione del Piano», necessità di «lavorare su un orizzonte temporale più esteso». Insomma nulla di concreto. Ma qualcosa di più potrebbe e dovrebbe dire oggi al Senato il ministro Raffaele Fitto.