Dobbiamo davvero ringraziare Miles Davis e titolo più giusto non poteva essere che Merci Miles! Live at Vienne (Rhino Rec.) per l’ultimo inedito pubblicato. Il 25 giugno (doppio cd o vinile, download e streaming su ogni piattaforma digitale) è comparsa questo recital del grande trombettista, inciso il 1° luglio 1991 in Francia, al Vienne Festival, quando nessuno immaginava che Davis sarebbe presto scomparso di lì a poco più due mesi (28 settembre). Sempre a luglio ‘91, il ministro francese della cultura Jack Lang lo aveva nominato «Cavaliere della Legione d’Onore» e le vicende di quel periodo sono ben ricostruite dal critico Ashley Kahn nel booklet allegato; l’edizione di Merci Miles! Live at Vienne, peraltro, è stata programmata durante la celebrazione del Black History Month e la Rhino Records ha aggiunto Davis ad altre uscite significative (Aretha Franklin, Curtis Mayfield, Nina Simone, Ray Charles).

L’ALBUM è importante per un duplice motivo. In primo luogo come testimonianza storico-sonora concreta della seconda stagione elettrica di Miles Davis, periodo in cui – pur essendo diventato quasi una pop-star – il trombettista continuava a sfornare musica volta al presente e al futuro. In questo senso Live at Vienne è utile per far conoscere a tanti giovani appassionati e studenti di jazz che non esistono solo il trombettista 19enne con Charlie Parker, il leader della Tuba Band matrice del cool jazz, il condottiero di quintetti formidabili negli anni ’50-’60, l’alfiere del jazz modale (Kind of Blue). C’è anche un Miles Davis jazz-rock (da Bitches Brew in poi) che negli anni ’70-’90 ha prodotto jazz tutt’altro che passatista. «Gli studi [di registrazione] sono troppo freddi, si suona in un altro modo (…) Io vorrei sempre registrare dal vivo» dichiarò negli anni ‘80 il trombettista al critico francese Francis Marmande. È quanto accade nel live al festival di Vienne e la sua scaletta è un perfetto specchio del repertorio (70 brani nel decennio 1981-’91) e delle scelte stilistiche di quel periodo, suonata con energia e interplay da un quartetto senza chitarra elettrica: Kenny Garrett (sax), Deron Johnson (tastiere), Foley (basso) e Ricky Wellman (batteria). Il recital inizia con Hannibal, brano del bassista Marcus Miller che prese il posto di Gil Evans e ben lavorò per l’album Tutu (tra i migliori dell’ultima stagione). Pezzo esteso, dal semplice groove di base, ricco di dinamica e accattivante, giocato in un fitto intreccio con Garrett. Seguono le «nuove» ballad di Miles (Human Nature, Time After Time) in cui il trombettista espande il suo lirico solismo in intro, code o pedali. Anche Amandla (6° brano) di Miller ha il carattere di una ballad ma dallo slow passa presto al medium funky.

CON «PENETRATION» si risignifica il repertorio di Prince – Davis tentò una, fallita, collaborazione con il chitarrista – mentre l’originale Wrinkl ha un groove adrenalico e gioca su tempi (e temi) lenti o iperveloci. Prima del finale (lungo assolo del batterista Wellman) il trombettista si muove a suo agio sul rock-blues di Jailbait, ancora di Prince. Pubblico entusiasta per un artista sempre proteso in avanti, fino alla morte.