È uno stile unico quello adottato da Miguel de Unamuno: la sua prosa è disadorna, essenziale, addirittura scarna, con pochissimi dettagli descrittivi che lasciano all’immaginazione dei lettori l’ambiente, gli abiti, i paesaggi, i colori, gli oggetti, l’aspetto fisico dei personaggi. Sorvola sull’azione, la riassume in brevi frasi, la condensa in un gesto, a volte non dà spiegazioni precise di come, dove e quando le cose accadano: tutto passa attraverso il dialogo o il monologo, la trama emerge man mano che i personaggi si parlano, si confrontano, si abbandonano a riflessioni, così da enfatizzarne le idee – «L’uomo è l’idea, e l’idea è l’uomo» – e metterli a nudo.

A centosessant’anni dalla nascita, due opere di narrativa riportano all’attualità l’autore del Sentimento tragico della vita:

negli Oscar Moderni, Mondadori ripropone, con una nuova prefazione di Alberto Manguel, Nebbia (traduzione di Stefano Tummolini, pp. 252, € 12,50) il più celebre tra i suoi romanzi, che venne pubblicato in Italia già nel 1921, a quanto ricorda l’autore stesso in una nota finale a dir poco autocelebrativa. Non c’è da stupirsi se l’edizione italiana ha preceduto quelle straniere – ben quattordici fra il 1922 e il 1935: nella prima metà del Novecento, infatti,  il pensiero di Unamuno (rettore dell’Università di Salamanca, filologo e filosofo dalle alterne e contraddittorie posizioni che gli valsero, negli anni, l’arresto e l’esilio) aveva suscitato un vasto interesse tra gli intellettuali, e le sue ampie incursioni nella poesia, nel teatro e nella narrativa non erano sconosciute ai lettori grazie alle tempestive traduzioni di Gilberto Beccari.

In Nebbia (il terzo dei suoi romanzi, pubblicato nel 1914 e pervaso da un beffardo umorismo cervantino) Unamuno afferma più volte che «un uomo di carne e ossa» e «uno di quelli che chiamiamo di finzione» hanno uguale diritto a venir considerati reali, e mette in scena un incontro finale tra sé stesso e il protagonista, pronto a rinfacciargli che anche l’autore potrebbe essere, come le sue creature, solo un personaggio destinato a narrare le storie altrui.

Proprio in un capitolo di «Nebbia», lo scrittore esplicita il rinnovamento formale e tematico che presiede alla costruzione della sua narrativa, affidando a uno dei personaggi una sorta di proclama estetico contro le regole imposte dal realismo ottocentesco, da lui sostituite con una personalissima invenzione letteraria, la nivola (ironica storpiatura di novela), in cui il dialogo ha un ruolo preponderante e «la trama si fa da sola», prescindendo da ogni rigidità strutturale. Qualcosa di assolutamente nuovo, insomma, qualcosa di audace e rivoluzionario che prenderà ulteriormente forma nelle nivolas successive, siano magistrali racconti lunghi o brevi, o romanzi, come il magnifico Abel Sánchez apparso nel 1917 (Cencellada, 2023).

I critici –  scrive Unamuno ad apertura del suo Tre novelle esemplari e un prologo (del 1920) – hanno spesso considerato la nivola «un romanzo di tesi filosofiche, simboli, concetti personificati, saggi in forma dialogata»; eppure – ribadisce con decisione – la realtà reale, intima, eterna, nei suoi testi è ben più viva che in una letteratura regolata dalle convenzioni e abitata da «manichini vestiti, che si muovono a molla». La conferma di questa assoluta adesione alle verità interiori, e del fascino che esercitata il «parlare spezzato e interrotto» cui l’autore è sempre rimasto fedele, ce la offre adesso il romanzo La zia Tula (tradotto con grande perizia da Sara Papini, Cencellada, pp.168, € 19), quasi ignorato fino ad ora dall’editoria italiana, se si esclude la sua inclusione nella raccolta Romanzi e drammi di Miguel de Unamuno (Casini 1955) curata da Flaviarosa Nicoletti Rossini. Come le altre nivolas, anche questa, pubblicata nel 1921, esibisce un denso prologo di taglio teorico in cui l’autore suggerisce alcune chiavi di lettura  abilmente collegate, tra cui la citazione di lettere e memorie della «chisciottesca» e intrepida Santa Teresa de Jesús, o la metafora dell’alveare dove sono le api sterili e operose, e non le regine o i fuchi, a produrre il miele e allevare la prole; o l’uso, per la prima volta in lingua spagnola, del termine sororidad, che annuncia nuove possibilità per la convivenza umana: «Parliamo di patrie e su di esse di fratellanza universale – scrive Unamuno – ma non è una sottigliezza linguistica sostenere che non potrebbero prosperare senza matrie e sorellanza».

Gertrudis detta Tula, la protagonista, è una donna assillata da una «fame di maternità» che esclude però il suo necessario presupposto, ovvero un rapporto carnale con l’uomo, inaccettabile per lei, animata da un’ansia di purezza assoluta, che associa alla sessualità un’idea di sottomissione e di rinuncia alla libertà («Libera ero, libera sono, libera penso di morire»), per diventare puro oggetto in mani altrui. Ecco perché decide che a procreare non sarà il suo corpo, ma quello di altre donne, a cominciare da sua sorella Rosa, manipolata sottilmente e spinta ad avere figli che non desidera davvero. Eppure Tula non è asessuata né frigida: aderisce, piuttosto, a un ideale di maternità suprema che, separata dal suo contesto naturale, si trasforma in un’astrazione e in un rigoroso progetto educativo, ai confini con l’utopia.

ll romanzo illustra con geniale asciuttezza il suo approdo al ruolo di madre-vergine dei cinque nipoti e, in un certo senso, anche del cognato Ramiro, cui impone di sposare prima Rosa e poi la fragile domestica Manuela, orfana e tisica: entrambe moriranno di parto, dopo aver dato alla protagonista i figli tanto desiderati. Figli soltanto suoi (anche Ramiro morirà, contagiato dalla seconda moglie) da crescere perché in futuro formino famiglie nuove e perfette, come quella che lei ha fondato per loro. Dopo la sua morte, a succederle sarà Manolita, la minore, allevata per diventare la pietra angolare su cui si regge la «piccola patria» familiare, che si propone il fondamento di una matria più grande, ovvero di una società pacifica e migliore, a partire da ordinate relazioni individuali.

Attraverso la nipote, la zia Tula prolungherà la sua presenza in terra, conquistando quell’immortalità che per Unamuno è  stata allo stesso tempo tentazione e ossessione. Attraverso la sua protagonista, lo scrittore basco sembra voler esplorare la dicotomia verginità-maternità proposta dalla fede di cui è fervente seguace e che tenta da sempre di conciliare con la ragione (il richiamo a Santa Teresa è, nel romanzo, costante e ribadito), pur sfiorando a tratti la psicoanalisi (nel 1934 dichiarò che nessuno aveva capito il romanzo, tranne «il gruppo di Freud»). Mentre disegna con eccezionale vigore la complessa psicologia di una donna fuori dal comune non dimentica di seminare dubbi e amare incertezze: in fondo, Tula potrebbe anche essere una sorta di vampiro che, pur di realizzare i propri desideri, dispone delle vite altrui e, con una durezza prossima alla crudeltà, non esita a servirsi dei corpi di altre donne.

La zia Tula – forse la nivola più intensa e originale tra quelle prodotte da Unamuno – acquista così sfumature inquietanti, che fanno di Tula un’eroina singolare, una sorta di belle dame sans merci che, al di là delle intenzioni dell’autore, si muove nell’orbita di un gotico sommesso ma inequivocabile.