In “Il processo e la realtà” del 1929, il britannico Alfred North Whitehead affermava: «Tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone». Con questa frase Whitehead intendeva mettere a nudo l’intima essenza di ogni disciplina scientifica nata in Europa successivamente al pensiero classico dei greci antichi. Un’essenza epistemologica in primo luogo razionalista sviluppata e messa a sistema proprio da Platone attraverso la sua celebre dottrina delle Idee, secondo cui la vera realtà non consisterebbe nei fatti concreti del mondo, ma in un orizzonte astratto popolato di concetti generali, onnicomprensivi, eternamente salvi dal divenire del tempo e dalle imperfezioni della materia. Al grande maestro ateniese sarebbe poi succeduto Aristotele, il quale, alla domanda «chi è l’uomo?», avrebbe risposto senza esitazioni «l’uomo è un animale razionale». Così, si consolidavano ulteriormente le basi per una filosofia e una scienza del puro intelletto, con al centro un’umanità dotata essenzialmente della logica razionalità e di un pensiero sempre identico a se stesso.
Ed è proprio in contrapposizione all’impostazione aristotelica che si sviluppa la trama concettuale ed estetica della mostra ospitata al Castello di Rivoli Metamorfosi (a cura di Chus Martínez, fino al 24 giugno). Nel pannello introduttivo, infatti, si ricorda che ai predecessori di Aristotele «importava poco o nulla la disamina delle differenze tra le varie facoltà degli animali, esseri umani compresi. E in sintonia con essi, Ovidio ne Le metamorfosi intonò: “Le forme in novi corpi trasformate gran desio di cantar m’infiamma il petto”». E, ancora, la curatrice Martínez spiega: «Metamorfosi rappresenta l’esercizio del pensare la vita con l’immaginazione e soprattutto senza gerarchie e vincoli. Gli artisti hanno cercato di restituire con il loro gesto libero, svincolato da stili o generi la segreta tessitura della natura». In altre parole, l’esposizione si presenta come un cammino al di fuori del pensiero logico-razionale, un’immersione in forme espressive non traducibili verbalmente e che trovano il loro significato all’interno del perimetro tutto sensoriale dell’occhio di chi guarda.
In quest’ottica, le opere più rappresentative sono forse quelle dell’artista svedese Ingela Ihrman, la cui installazione The Passion Flower apre infatti la mostra. Si tratta di una serie di enormi fiori, steli e piccioli riprodotti con tela, nylon e plastica. Di fronte a essi, l’osservatore sta come un insetto immerso nel suo habitat naturale e si ritrova immediatamente catapultato in un universo di significati e linguaggi che non gli appartengono. D’altra parte, non è forse la trasformazione in scarafaggio del kafkiano Gregor Samsa una delle metamorfosi più rappresentative per l’umanità moderna occidentale? Grazie a Ihrman, ciascun visitatore di Metamorfosi può vivere in prima persona un’esperienza simile e approfittarne per rivalutare radicalmente la scala dei suoi valori e delle sue credenze, lasciando campo libero a immaginazione e suggestioni extra-razionali.
Proseguendo, altre trasformazioni si affacciano sulla scena. Come per esempio quelle proposte dall’artista tedesco di origini irachene Lin May Saeed. Lo scultore ci propone una serie di incisioni nel polistirolo, tutte raffiguranti animali, uomini primitivi, scene aborigene. Forse anche in virtù del medium, del tutto grezzo e per certi versi rudimentale, qui lo spettatore può trovare un canale di comunicazione con l’eco ancestrale della propria condizione originaria, quando l’intera umanità abitava ancora nel grembo rupestre della Madre Terra. In Nus, per esempio, due cacciatori primitivi sono ritratti mentre incidono figure animalesche sulla parete di una grotta. I contorni dei personaggi sono grossolani, le espressioni dei volti al limite del caricaturale, la scena immersa in una luce surreale in grado di tenere vicine dimensioni temporale lontanissimi tra loro quali la preistoria e il presente.
Nel finale, tra gli altri lavori, troviamo una gigantesca «nuvola» di tessuti installata dallo svizzero Reto Pulfer, che dal pavimento si inerpica fino al soffitto, come a concludere anche plasticamente il percorso espositivo. L’opera si intitola enigmaticamente Il sogno di Theaceae ed è costituita da lenzuola e panni coloratissimi intrecciati fra loro a costituire un’enorme vela marinaresca. L’osservatore può attraversarla e perdersi come all’interno di un labirinto. In questo caso, la metamorfosi che offre Pulfer ci riporta a una condizione fanciullesca, di gioco libero e fine a se stesso. Un’esperienza per abbandonare, anche solo per qualche minuto, gli schemi rigidi di una scelta motoria premeditata e diretta verso una meta precisa: di fronte a questa grande «parete» di panni colorati non si può far altro che muoversi alla cieca, lasciandosi ispirare dal leggero fluttuare dei tessuti appesi.
A questo punto, per l’osservatore le metamorfosi sono terminate, ma non l’indicazione complessiva delle esperienze appena vissute. Anzi, più che un’indicazione, una specie di monito: l’uomo fonda la sua esistenza e la sua società principalmente sulla sicurezza teoretica dei suoi sillogismi e delle sue deduzioni. Al contrario deve anche ricordarsi costantemente di quella natura più grande e imperscrutabile che governa fin dal principio l’universo e ogni sua espressione.