Per comprendere quanto basso sia il rispetto per i diritti umani in quella parte di America latina dove il «socialismo del XXI secolo» non si è ancora affacciato, basta guardare al Messico delle fosse comuni e dei giornalisti ammazzati (ma anche alla Colombia, all’Honduras, al Guatemala…). L’ultimo ad averci rimesso la pelle per le sue inchieste sul narcotraffico innervato alla politica e al mondo dell’imprenditoria è stato il giornalista Javier Valdez, ammazzato lunedì scorso. Era corrispondente de La Jornada a Sinaloa e redattore del settimanale pubblico Riodoce. Ieri diversi media messicani hanno scioperato e manifestato per chiedere giustizia e protezione dalle persecuzioni, dagli attacchi e dagli assassinii.

DAL 2000 a oggi, sono 104 i giornalisti uccisi e altri 25 sono desaparecidos con poca probabilità di essere ritrovati in vita. Dal 2006, i giornalisti hanno subito 51 attentati. L’anno scorso hanno perso la vita in 11, la cifra più alta di questo secolo. Da quando ha assunto l’incarico l’attuale presidente Henrique Peña Nieto (il 1 dicembre del 2012), sono stati eliminati 38 operatori della comunicazione.

VALDEZ è il sesto giornalista ammazzato dall’inizio del 2017. Un uomo armato gli ha sparato numerosi colpi vicino alla sede del settimanale Riodoce a Culiacan, nello Stato di Sinaloa: dove opera un omonimo e potente cartello del traffico di droga. Nell’automobile sottratta alla vittima e abbandonata dall’assassino poco lontano sono stati trovati 12 bossoli. Il giorno della morte, Valdez aveva inviato a La Jornada un articolo sulla protesta dei maestri che ancora chiedono giustizia per i loro compagni assassinati. Il giornalista-scrittore era anche corrispondente dell’agenzia francese France Presse. All’inizio di maggio aveva inviato un reportage dal titolo «Il compare di El Chapo, il suo peggior nemico». Raccontava come l’ex poliziotto ministeriale Lopez Nuñez avesse aiutato El Chapo Guzman a evadere dal penale di Puente Grande (stato di Jalisco). Peña Nieto, il cui livello di popolarità ha raggiunto minimi storici, ha scritto in twitter una delle sue frasi retoriche, frutto di un’efficiente macchina di propaganda, dietro le quali nasconde il fallimento delle politiche neoliberiste e dello Stato.

L’ULTIMO LIBRO di Valdez s’intitola NarcoPeriodismo: la prensa en medio del crimen y la denuncia. Nel volume, il pluripremiato giornalista s’interroga sul senso e sulla speranza della professione di fronte al visibile intreccio tra mafia e politica. Scrive ne La Jornada: «Non parliamo solo di narcotraffico, una delle nostre minacce più feroci. Parliamo anche di come ci minaccia il governo. Di come viviamo in una redazione infiltrata dal narco, vicino ad alcuni compagni nei quali non si può avere fiducia perché forse passano informazioni al governo o ai delinquenti». E ancora: «Denunciamo gli imprenditori, i proprietari e i direttori dei media, che mettono al primo posto gli affari, che sono più preoccupati per il guadagno che per raccontare quel che succede nel nostro paese o quel che può accadere ai suoi reporter e ai suoi impiegati».

IL MECCANISMO di protezione di giornalisti e difensori dei diritti umani è insufficiente – ha dichiarato Amnesty International – e «riflette l’assenza dello Stato in diverse aree». Dal 2006, «oltre 30.000 persone vengono considerate scomparse. Non si sa con certezza quante siano state vittime di sparizioni forzate per mano di agenti dello Stato e quante per mano di agenti non statali». Il 10 maggio, festa della mamma, è stata ammazzata Miriam Rodriguez, esponente del Colectivo de Desaparecidos di San Fernando, a Tamaulipas. Un messaggio rivolto alle donne, in prima fila nella ricerca degli scomparsi. Miriam ne aveva ritrovati 400 solo nella zona di San Fernando. Il suo impegno era cominciato nel 2012, dopo il sequestro e l’omicidio della figlia, gettata in una fossa comune. Il Messico vanta anche il triste primato dei femminicidi. Inchieste alternative indicano che i 43 studenti di Ayotzinapa siano stati bruciati nei forni crematori delle caserme militari. Ma il Segretario dell’Osa, Luis Almagro (considerato un «pericolo per tutta l’America latina» da Pepe Mujica) non se ne occupa: preferisce assumere l’ossessione degli Usa contro il Venezuela e Cuba