La prima occorrenza italiana di quella che Charles Baudelaire, immaginandola una via aurea alla modernità, ebbe a definire Perte d’auréole è nel pallido libretto del ventiseienne Camillo Sbarbaro (1888-1967) edito a Firenze nella collana della «Voce» poco avanti la prima guerra mondiale, nel 1914, e con un titolo che parrebbe sottratto ai crepuscolari, Pianissimo. Intessuto di una trentina di testi appena e al ritmo di endecasillabi castigati fino alla atonìa, vi si squaderna nella più asciutta essenzialità l’intero repertorio di una bohème che anche a Genova aveva comportato solitudine e spaesamento, anonimato nella folla, noia per le ore trascorse nello scagno e per la monotonia del vivere borghese, ricerca di fraternità nel convivio, fatale frequentazione di bettole e lupanari. Era questo il catalogo di un «io» reificato o addirittura pietrificato il cui intrepido vocativo, a mezzo fra il bilancio e una smagata ouverture, già corrisponde al primo dei componimenti, Taci anima stanca di godere, per ritrovarsi a suggello nel testo in clausola che suona, ancora con Baudelaire, Talora nell’arsura della via.

È noto che, congedato al termine della Grande Guerra, licenziatosi dall’impiego all’Ilva, estraneo al regime fascista cui sopravvive grazie alle lezioni private, alle non poche traduzioni dal greco e dal francese nonché alla vendita delle sue eccezionali collezioni di licheni, Sbarbaro si dedica alla scrittura in prosa (la prima uscita dei Trucioli risale al ’20) e tace da autore in versi a parte i vecchi testi addizionali, compresi gli stupendi Versi a Dina, poi confluiti in Rimanenze che l’amico Scheiwiller gli pubblica nel ’55: per parte sua, il poeta è tornato l’anno precedente su Pianissimo sfatandone certi pallori espressionisti e levigandone sistematicamente il dettato con esiti che la unanimità dei lettori ha però ritenuto infelici. Parabola involutiva che in un certo senso riguarda anche i numerosi testi in prosa, oggetto di una costante riscrittura in chiave manierista e della progressiva acclimatazione ai moduli novecentisti di una prosa d’arte che peraltro è estranea o comunque lontana dagli avvii sbarbariani: e qui si allude sia alla revisione in senso classicista dei Trucioli (1948 e 1963) sia, nel dopoguerra, alle appendici di Liquidazione (’28) vale a dire lo stillicidio scheiwilleriano, fra il ’63 e il ’67, di Gocce, Contagocce e Quisquilie (con la eccezione di Fuochi fatui, del ’56-’58, che tuttavia è un libro mastro, più che altro un taccuino d’autore).

Se stando al decorso cronologico il conflitto fra la qualità dei testi e, testimoniata dalle stampe, l’ultima volontà del poeta era risolto decisamente a favore della seconda nel complessivo L’opera in versi e in prosa (che uscì nel 1985 a cura della biografa Gina Lagorio e dello stesso Scheiwiller), opta viceversa per la riproposizione in integrale delle opere e delle riedizioni rispettive, secondo cronologia, il volume delle Poesie e prose (Mondadori «i Meridiani», pp. CLIV+1.582, € 80,00) che esce per la cura meritoria di Giampiero Costa con un limpidissimo ritratto (in realtà uno studio monografico) a firma di Enrico Testa che muove dalla destrutturazione di due cospicui e oramai secolari stereotipi, l’uno che vorrebbe Sbarbaro figé nell’immagine di poeta solitario, appartato e quasi emarginato, l’altro che ne farebbe il firmatario di un’opera rarefatta, sempre ai limiti della reticenza espressiva e nel tempo tutta quanta prodigata per via di levare. In realtà – scrive Testa – Sbarbaro è «un Pessoa che non ha bisogno di eteronimi slittando, col passare degli anni, da una tonalità all’altra con leggerezza e, insieme, fatica» mentre l’insieme delle pagine scritte è un universo molto più ricco e affollato dell’immaginabile pure se costantemente catafratto nella dissimulazione e nella ritrosia, tratti elettivi di un poeta che cercava la sua perfezione e cioè la compiutezza puntando, scrisse una volta Gianni Scalia, sulla «cògnita tenacia di imperfettibilità» ovvero su una ricchezza ottenuta per via di decantazione.

La presente edizione ha, dunque, andatura elicoidale, per cui oltre l’esordio di Resine (la plaquette del 1911 che Sbarbaro detestava e infatti era espunta dall’edizione Lagorio-Scheiwiller) qui sfilano in sequenza la princeps di Pianissimo e Trucioli , poi le loro riproposte unitamente ai versi e alle prose successive, fino a Quisquilie che è del ’67. Per comprensibili motivi mancano del tutto le traduzioni ma forse si sarebbe potuta fare una eccezione per quella, sul serio travolgente quanto a piglio e inventiva, del dramma satiresco di Euripide Il ciclope (1945), molto prossima alla riscrittura o a un testo elaborato d’aprés: l’edizione Scheiwiller del 1960, vivo Sbarbaro, addirittura anteponeva in copertina il nome del traduttore al tradotto. Integra il volume un’appendice di testi dispersi e qualcosa come cinquecento pagine di apparati dove si condensano decenni di filologia sbarbariana con gli apporti di una quantità insospettabile di studiosi e – tra i numerosi altri – dai benemeriti Domenico Astengo e Franco Contorbia a Stefano Verdino, Paolo Zoboli, Simona Morando e Simone Giusti. Resta comunque che se Pianissimo non esaurisce in sé la fisionomia del poeta, è chiaro altrettanto che a Pianissimo del ’14 tutto ritorna per dare consistenza e senso a quella sua medesima fisionomia, a lungo così scontata, convenuta, da evocare per paradosso un Pessoa, come scrive per l’appunto Testa, il quale, a proposito di Pianissimo e – in controcanto – dei primi Trucioli, sottolinea «l’argomentare sulla disperata vicenda dell’io e sul suo non sentirsi più a casa nel mondo».

Nel secolo non sono mancati a Sbarbaro i grandi interpreti, da Giovanni Boine a Carlo Bo, da Pier Vincenzo Mengaldo (Poeti italiani del Novecento, 1978) a Franco Fortini (I poeti del Novecento, ’77), ma la sua persistenza si deve essenzialmente ai poeti, alla loro fedeltà che il tempo sembra avere persino incrementato. Dopo gli amicissimi Angelo Barile, Adriano Grande, Adriano Guerrini, c’è la rivista «Officina» che ne ospita i testi a metà degli anni cinquanta insieme con il saggio di Pier Paolo Pasolini che lo recupera fra i «maestri in ombra» del primo Novecento e, parallelamente, compaiono gli scritti e i ripetuti omaggi tributatigli da un allora giovanissimo Giovanni Giudici e così da Giorgio Caproni, la cui lunga fedeltà è un contrappasso alla profonda ambiguità di Montale che col tempo rimosse il suo vecchio amico fino a scriverne un necrologio di glaciale imbarazzante freddezza. E poi i poeti di oggi e alcuni dei nostri maggiori, quali Fabio Pusterla (che a Sbarbaro dedica un saggio uscito su «Versants» già nel 1987), Umberto Fiori (con un contributo del 2003 su Pianissimo, in «Trasparenze») e ovviamente Enrico Testa, l’autore di Ablativo (2013) e Cairn (’18), nella cui meditazione ricorrono ab origine sia il tema della solitudine urbana sia il senso della vita come essenzialità e spoliazione.

Scrive Testa concludendo il proprio saggio che Camillo Sbarbaro «continua a parlarci anche oggi – e a trovare ascolto – con il timbro semplice e familiare delle sue migliori poesie in bilico tra richiamo del nulla e valore dell’immanenza (…) figura fraterna per coloro che sono in grado di scorgere al fondo di sé la presenza di ognuno».