Meridiana e le altre, tutte le crisi che Renzi non vede
Lavoro A Olbia il presidente del Consiglio è stato accolto dai lavoratori della compagnia aerea e dai cassintegrati dell'Alcoa, simbolo delle decine di crisi industriali nell'Italia che esce dalla recessione
Lavoro A Olbia il presidente del Consiglio è stato accolto dai lavoratori della compagnia aerea e dai cassintegrati dell'Alcoa, simbolo delle decine di crisi industriali nell'Italia che esce dalla recessione
A bordo di una molto americana Jeep Renegade guidata da Sergio Marchionne, seduto sul lato passeggeri e accompagnato, sul sedile posteriore, da Graziano del Rio e Alain Elkann, il presidente del Consiglio Matteo Renzi giovedì 28 maggio si è presentato al reparto di lastratura della Fiat di Melfi, e non è dato sapere in che modo gli operai abbiano commentato l’arrivo di una così alta delegazione a bordo di un Suv prodotto altrove.
Che si sia trattato di gaffe involontaria o inutile spavalderia da zio d’America dei tempi dell’emigrazione, la visita lampo del premier alla fabbrica-emblema della mancata dismissione della Fca ha avuto il solo compito di oscurare le note dolenti del pomeriggio, trascorso invece in Sardegna.
Atterrato a Olbia per l’inaugurazione del cantiere del Mater Olbia, un ospedale che dovrà nascere, con soldi del Qatar, sulle ceneri dell’ex San Raffaele, ha trovato ad attenderlo dei lavoratori in t-shirt rossa e la scritta «Io sono un esubero Meridiana» e un pugno di cassintegrati dell’Alcoa che gli chiedevano di «attivarsi personalmente» perché la Commissione europea, chiedendo il rimborso degli «aiuti di Stato» concessi all’azienda, impedisce il riavvio dello stabilimento.
[do action=”citazione”]Il punto è che in Sardegna la situazione lavorativa è catastrofica.[/do]
Un dossier di Confindustria appena presentato parla di una vera e propria «questione sarda», fatta di fabbriche che chiudono, giovani che emigrano (con saldo migratorio negativo), la popolazione che invecchia e le aree interne che si spopolano sempre più. L’isola è in testa a una speciale classifica che misura le famiglie in cui almeno un componente ha perso il posto di lavoro tra il 2013 e il 2014: ben 24 su cento, seguita da Calabria, Puglia, Sicilia e Campania, vale a dire quasi l’intero sud Italia, con l’eccezione della piccola e poco industrializzata Basilicata.
Allungandosi di poco con la Jeep Renegade modello Detroit guidata dall’amministratore delegato della Fiat, Matteo Renzi avrebbe potuto fare una capatina pure in quella ex Terra di Lavoro per dare un’occhiata a quella che il segretario della Fiom Maurizio Landini ha definito «vertenza Campania»: dall’Alenia di Capodichino (ceduta da Finmeccanica all’Atitech, con riflessi sul lavoro che al momento si riesce solo a immaginare), alla Ericsson di Marcianise dove i lavoratori, dopo aver detto no alla cessione alla multinazionale americana Jabil, ci hanno ripensato e rivotato per un sì dalle conseguenze che si temono dolorose nonostante le promesse di mantenere produzione e commesse fino al 2019 (mentre la multinazionale svedese dei telefonini, dal suo canto, ha aperto una procedura di licenziamento collettivo per 210 persone negli altri stabilimenti italiani), fino alla ex Indesit di Carinaro (acquistata dagli americani della Whirpool al prezzo del sacrificio dello stabilimento casertano e di oltre duemila lavoratori in tutta Italia). Nel suo mini-tour, il capo del governo avrebbe potuto chiudere con l’ultima fabbrica rimasta in piedi, in un polo industriale ormai desertificato e dalle strade a prova di Jeep Renegade: l’azienda ferroviaria Firema, oggi in amministrazione controllata e domani chisssà.
Piccole e grandi crisi industriali crescono nel 2015 dell’uscita dalla recessione e del Jobs Act, dunque. Dal sud al centro-nord, l’emorragia di posti di lavoro, competenze qualificate e produzione non pare cessata e, nonostante alcuni salvataggi (il celebrato caso Electrolux, il recupero da parte dei lavoratori della ex Ideal Standard e il non ancora concluso accordo con gli algerini di Cevital per le acciaierie di Piombino), il quadro è a tinte fosche.
[do action=”citazione”]In buona sostanza, le fabbriche italiane chiudono i battenti oppure si affidano a capitali e padroni stranieri sperando in un miracolo.[/do]
Crisi industriali si susseguono da un capo all’altro della penisola: la Prysmian di Ascoli Piceno (un’azienda operante nel settore oil e gas) chiuderà lasciando a casa 120 dipendenti, nell’Abruzzo del dopo-terremoto si contano ben 40 crisi industriali, tra le quali quella della storica cartiera Burgo di Avezzano, e la malattia di cui soffre l’Italia pare cronicizzata a tal punto che la Cgil, per non perdere il filo, redige un bollettino settimanale delle nuove crisi: l’ultima notizia, quella dell’accordo nella grande catena di supermercati Auchan che consentirà di salvare novemila posti di lavoro, sembra l’annuncio di una catastrofe evitata. Il nuovo fronte di crisi è infatti quello della grande distribuzione: Mercatone Uno, «lo specialista della casa e del mobile», mette in cassa integrazione 3.071 dipendenti, MediaWorld (settore tecnologico) ha annunciato 120 esuberi solo a Roma e la prossima fuga potrebbe essere quella dei francesi di Carrefour. Nonostante l’Expo milanese dedicato al cibo, i consumi languono e i supermercati soffrono.
La situazione più drammatica è però quella della siderurgia, che in dodici anni ha perso ben ventisei siti e dov’è sopravvissuta come all’Ilva di Taranto, non se la passa granché bene, con l’unica eccezione dell’Ast di Terni dove il pericolo chiusura è stato sventato grazie a una massiccia mobilitazione operaia e della città.
Si tratta di un vero e proprio terremoto rispetto al quale i sindacati chiedono al governo una politica industriale assente da troppo tempo, con strategie di medio e lungo periodo, e non provvedimenti-tampone per le singole emergenze, palliativi che non risolvono il problema della desertificazione industriale alla radice. La Fim-Cisl rimpiange il tavolo aperto dal governo Letta (e chiuso da Renzi) e chiede l’abbattimento dei costi dell’energia, la creazione di consorzi di approvvigionamento delle materie prime, politiche per la certificazione dei prodotti e dei settori consumatori e misure antidumping. La Uilm si dice convinta della necessità di creare servizi e infrastrutture nelle zone industriali, per renderle competitive (mentre nell’area casertana della ex Indesit il binario per i treni merci è dismesso, ad esempio), e la Fiom allarga invece il fronte all’Europa: «Serve una linea strategica anche all’interno del piano europeo sulla siderurgia». Si tratta del primo intervento a livello continentale sull’acciaio dai tempi del piano Davignon del 1977, e prevede l’accesso ai mercati dei paesi terzi in condizioni di pratiche commerciali leali, la riduzione dei costi dell’industria a partire da quelli burocratici, innovazione, efficienza energetica e processi produttivi sostenibili, nonché misure per sostenere l’occupazione, accompagnare le ristrutturazioni e far rimanere in Europa una manodopera altamente qualificata.
Il punto è che bisognerebbe impedire le delocalizzazioni, almeno con una legge come l’imperfetta Florange francese che pure è servita a frenare l’emorragia, costringere chi chiude o abbandona le fabbriche a risanare senza lasciarsi alle spalle campi minati dall’inquinamento e perciò non recuperabili ad alcuna attività, e magari pensare ad aggiornare la vecchia legge Marcora dell’85 per privilegiare ed aiutare gli ex dipendenti nel recupero delle attività produttiva, anche solo sancendo che i terreni, i locali e i macchinari non si possono svendere al peggior offerente ma devono rimanere lì dove si trovano.
Nel sindacato sono consapevoli che un’interlocuzione senza lotta sarebbe debole e monca. La vicenda dell’Ast di Terni insegna che la solidarietà operaia e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sono in grado di ottenere risultati impensabili.
Ora lo stesso scenario si ripresenta con il caso-Whirpool: al momento della cessione, Renzi aveva parlato di «operazione fantastica» e sostenuto di aver visto di persona il piano industriale degli americani. È stato smentito nel giro di tre mesi e ora si trova a fronteggiare la più grave crisi del 2015: 2.060 esuberi (senza considerare l’indotto, 600 lavoratori in più nel solo casertano) e tre stabilimenti chiusi. Per respingere il piano industriale dei nuovi padroni ci sarà uno sciopero generale il 12 giugno. Per tenere insieme, come dice Maurizio Landini, la trattativa e la lotta e raggiungere un accordo onorevole.
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