Europa

Meno dipendenti e sempre più precari

Scenari Il rapporto dell’Ilo mostra come il lavoro salariato diminuisce sempre più in tutto il mondo. In questo quadro, la produzione determina la qualità dell’occupazione

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 29 maggio 2015

Pochi lavori, più precari e peggio retribuiti: è questa l’immagine del mondo del lavoro che fornisce l’ultimo rapporto dell’Ilo reso pubblico il 19 maggio. Le relazioni di lavoro cambiano, delineando un allontanamento dalla loro configurazione tradizionale. Nel modello che ha predominato fino alla fine del ’900, la figura di riferimento era quella di un lavoratore che, in cambio di un’opera prestata tempo pieno e, tendenzialmente, per tutta la vita percepiva in cambio un salario contrattato ex ante e, nella maggior parte dei casi, in modo collettivo. I risultati dell’ILO sul confronto internazionale relativamente al peso dei lavoratori dipendenti all’interno della forza lavoro delineano un quadro in cui, nell’ambito di una generale contrazione della quota di suddetti lavoratori sul totale, emerge una consistente eterogenità tra i diversi paesi. A fronte di una media mondiale che, nel 2014, vede il lavoro dipendente pesare per il 50% sul totale dell’occupazione, si collocano al di sopra della stessa media l’Europa e i paesi occidentali, con circa l’80%, l’America Latina e il Nord Africa, con il 60%. Al di sotto della media mondiale, invece, si trovano il Sud est asiatico (35%), l’Asia meridionale e l’Africa sub-sahariana con meno del 25% di lavoro dipendente sul totale degli occupati.
Il dato che rileva maggiormente, tuttavia, riguarda il trend di riduzione costante nel peso del lavoro dipendente sul totale dell’occupazione. Trend che, a differenza della quote di cui si è evidenziata l’eterogeneità, sembra accomunare in modo omogeneo i diversi paesi. Nelle economie avanzate, l’incidenza del lavoro dipendente diminuisce a favore di nuove forme di lavoro autonomo che fuoriescono del tradizionale schema datore di lavoro-lavoratore. Restringendo poi lo sguardo al lavoro salariato, meno del 40% dei lavoratori dipendenti ha un contratto a tempo pieno e indeterminato, mentre il restante 60% di questi è impiegato con contratti a tempo determinato o part-time. Una quota rilevante di questo 60% è costituita da donne. Inoltre, oltre un quarto del lavoro part-time è di natura involontaria (29,2% nel 2013 in EU-28), derivando da una scelta forzata del lavoratore posto di fronte alla crescente carenza di opportunità lavorative a tempo pieno.
I dati sulla natura del contratto di lavoro non sono meno confortanti, soprattutto se osservati su scala mondiale. Nei paesi ad alto reddito il contratto a tempo indeterminato riguarda il 75% degli occupati, mentre la stessa quota scende al 20% nei paesi a medio reddito e a meno del 6% nei paesi a basso reddito. Sebbene il lavoro senza tutele contrattuali sia geograficamente influenzato da America latina ed Africa, anche i paesi avanzati registrano un declino del contratto a tempo indeterminato dall’84,6% all’83,4%. Tale declino corrisponde ad un parallelo incremento di coloro che lavorano senza alcun tipo di contratto soprattutto nell’ambito di una precaria autoimprenditorialità.
La ristrutturazione del modello occupazionale si è tradotta in una transizione verso maggiore precarietà, riflessa nell’indebolimento delle tutele garantite dai contratti, e forte flessibilizzazione degli orari di lavoro. Il combinato disposto di questi due elementi ha determinato un incremento delle diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, alimentando il circolo vizioso che dalla precarietà conduce, attraverso la riduzione dell’ occupazione, a una domanda aggregata debole e ad una crescita modesta. Fenomeno che ha caratterizzato, in particolare, il periodo post-crisi.
Secondo il World Employment Social Outlook dell’Ilo, il lavoro manca e quello che c’è perde qualità caratterizzandosi sempre più per informalità e precarietà. Uno dei motori fondamentali di tale cambiamento nella struttura occupazionale, è stata l’integrazione internazionale della produzione, organizzatasi in quelle che oggi vengono definite Catene Globali del Valore (Cgv). I paesi che partecipano alle Cgv hanno riorientato in modo profondo il loro percorso di specializzazione produttiva modificando, in conseguenza di ciò, anche la loro struttura occupazionale. I lavori legati alla frammentazione e all’integrazione internazionale della produzione rappresentano, nel 2014, il 20,6% dell’occupazione totale, segnando un aumento di quattro punti percentuali rispetto al 1995. Una parziale battuta d’arresto si è registrata nel biennio 2007-2008 soprattutto nei paesi emergenti con la crisi del settore trasporti e macchinari, e la maggiore disponibilità di input domestici per alcuni paesi come la Cina. Nonostante ciò, un’importante quota di lavori legati alle Cgv è concentrata nel settore dei servizi dei paesi avanzati, settore che ha dimostrato una maggiore resilienza rispetto al manifatturiero duramente colpito dalla crisi del 2008.
La letteratura economica ed empirica sulle relazioni offshoring/outsourcing e qualità del lavoro è ampia, e nel mare magnum dei numeri, ciò che emerge con chiarezza è l’importanza del posizionamento del paese in termini settoriali all’interno delle catene del valore. Ovvero, dimmi cosa produci e ti dirò che occupazione hai. La specializzazione del paese in settori knowledge-intensive risulta strategica ed è relazionata a occupazioni qualificate e mediamente meglio retribuite. Al contrario, la specializzazione produttiva di molti paesi emergenti e in via di sviluppo, ma anche di aree periferiche degli stessi paesi avanzati – si veda il Sud dell’Europa – verso le parti basse delle catene del valore è sovente relazionata a scarsa qualità dell’occupazione e maggiore vulnerabilità sui mercati internazionali. La mancanza di politiche industriali adeguate porta a un pattern di specializzazione settoriale incentrato su una mera competizione di costo, essenzialmente del lavoro, che si ripercuote su minore occupazione, bassi salari e maggiore disuguaglianza. Da questo punto di vista la scelta di adeguate politiche industriali volte all’irrobustimento di una specializzazione settoriale ad alto valore aggiunto e tecnologicamente rilevante risulta fondamentale soprattutto in termini occupazionali. La partecipazione alle catene internazionali del valore alcuni casi si associa ad una maggiore produttività del lavoro stesso in virtù dei cosiddetti technology spillovers che favoriscono l’interscambio di conoscenze e tecnologie fra paesi. Tuttavia, come ciò si ripercuota sul mondo del lavoro non è affatto scontato. In particolare, gli ultimi dati diffusi dalla stessa Ilo dimostrano una caduta della quota dei salari, cosiddetta labour share, a favore dei profitti. In definitiva ancora una volta decidere i pattern del cambiamento occupazionale in Europa e nel mondo è una scelta in primis politica ed istituzionale che riguarda anche la selezione di politiche industriali adeguate, la gestione del rapporto capitale-lavoro in termini distributivi, e non ultimo, la pianificazione del lavoro. In tal senso, dovremmo forse passare dall’ottica del lavoro che manca a quella del lavoro meglio ripartito soprattutto in virtù delle tecnologie adottate che dovrebbero essere pensate a servizio dell’umanità piuttosto che a detrimento dei lavoratori.

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