I classici non nutrivano la superstizione dell’originalità. L’averne già udito più volte il soggetto non rese meno grata al pubblico l’Elettra di Sofocle o d’Euripide né alcuno riproverò al Tasso d’aver calcato molti dei suoi versi più incisivi e armoniosi su quelli di Virgilio. Nel mondo antico le copie erano spesso firmate, come l’Ercole Farnese, realizzato da Glicone, e gli intenditori erano capaci di apprezzarne il valore sulla base, non dell’originalità con la quale era stato trattato il soggetto, ma della qualità dell’esecuzione. Esistevano scuole celebri in quest’arte, com’era quella di Afrodisia, nell’odierna Turchia; v’erano riproduzioni in scala più piccola o in materiale diverso di statue celebri, destinate a usi differenti, e ciò avveniva senza che ne seguisse quella dequalificazione che è intrinseca nelle odierne, fatte con mezzi meccanici. Le abitudini del patriziato romano furono ereditate dai principi rinascimentali che ornarono i loro giardini con copie di sculture antiche, come già avevano fatto Lucullo, Plinio e Cicerone nelle loro ville, facendo sì che quest’arte sopravvivesse alla caduta del mondo classico.
All’epoca di Medardo Rosso, le buone copie non erano richieste soltanto dai musei per scopi didattici ma erano anche ricercate dagli artisti, i quali, pur non volendo ripristinarne le forme o imitarne il gusto, come avevano tentato i neoclassici, sentivano gli antichi loro contemporanei, almeno in ispirito; sicché in quei modelli, invece di vedervi le reliquie di un’aurea società defunta, artisti come Rodin, Klinger, Sartorio vi percepivano come dei viventi archetipi.
Nell’ideare la mostra su Medardo Rosso, che resta aperta nelle sale di palazzo Altemps fino al 2 febbario, i due curatori, Francesco Stocchi e Paola Zacchi, sono partiti dal rapporto fra Rosso e l’Antico che fu certamente stimolato dall’incontro con Gerg Treu, direttore della Dresden Skulpturensammlung dell’Albertinum, che nel 1901 lo invitò a partecipare a un’esposizione che accostava opere scultoree moderne alle riproduzioni di statue classiche. L’artista cominciò a interessarsi ai calchi nel periodo che va dal 1890 al 1910, ma fu appunto dal 1901 che egli realizzò molte delle sue copie, sia di modelli greco-romani che di sculture rinascimentali. Rosso non si limitava a replicarne le forme: lavorava in morbida pasta di cera quel che era stato concepito in fervido bronzo, e in bronzo quel che era stato di basalto, dalle terrecotte ricavava gessi e dai marmi sculture in cemento.
In mostra si ammirano: il busto di Niccolò da Uzzano (1895), replica bronzea dell’originale in terracotta policroma attribuito a Donatello; i due Memnone, l’uno in gesso (1902-’04) l’altro in cera nera (1905-’09), tratti da un originale marmoreo del II secolo; la Tête de César, in cera, sempre da un marmo d’origine ellenistica raffigurante Antioco III; o ancora il Vitellio (1894), copia bronzea, ricavata a propria volta da una riproduzione seicentesca del ritratto dell’imperatore romano Aulo Vitellio.
Sebbene simili trascrizioni non fossero sconosciute al mondo antico, in Rosso presero il significato di una incessante sperimentazione sui singoli materiali e sulle variazioni possibili di un medesimo modello: «Rosso – scrive Paola Mola – slega l’antico, come il resto della sua scultura, dal luogo e da ogni fissità. In un’opera mobile e continua sempre nuove esecuzioni degli stessi spartiti musicali, o magistrali traduzioni di lontani frammenti di poesia»; sicché vi sarebbe una sottile continuità fra il copista, che riscrive in una differente materia le copie antiche, e l’artista originale che rimodula ora in bronzo ora in gesso ora in cera le sue stesse creazioni. Egli che percepiva l’arte antica e la rinascimentale come troppo intellettualizzate e perciò troppo immobili, aveva il bisogno per sentirle proprie di restituirle al tempo, alla terreste precarietà di ogni incarnazione.
Questo lavoro che, se si vuole, può essere confrontato con quello delle avanguardie, come fa Stocchi in uno dei saggi in catalogo, evidenziando come le successioni di uno stesso soggetto diventino «per Rosso la necessaria rappresentazione evolutiva di un’immagine in movimento, quindi viva e instabile», ha un’analogia evidente con quello di poeti quali Mallarmé o Valéry, che considerarono il testo una sezione casuale di un infinito processo elaborativo.
All’evidenza dell’osservatore, in un allestimento assai raffinato, sono esposte in una successione di gabbie di vetro, come provvisori homunculi, le varie versioni di alcune opere dell’artista. Si ha, per far soltanto qualche esempio, l’Enfant malade in due versioni, l’una in cera (1906), l’altra in gesso (1908); l’Uomo che legge, in gesso (1894), in bronzo (1900-’04) e in cera (1923-’26); e ancora l’Ecce Puer, in cera (ante 1912) e in gesso (1906). L’una accanto all’altra, tali da far venire in mente i fotogrammi di una pellicola, le opere, illuminate di una stessa luce sotto identiche teche, illustrano la tesi dei due curatori, con una limpida evidenza che val più di un’argomentazione; e se, come sostiene Stocco, «Medardo Rosso sconvolge il concetto di copia intesa in senso latino, trasformandola in versione, interpretazione, dal latino versus, cioè mutare», l’allestimento svolge quest’idea in una eloquente sintassi visiva, dimodoché la mostra appare quasi un essai di cui percorrere le sale e non le pagine.
Anche le fotografie esposte, che l’artista realizzò delle sue opere, rientrano, come le copie dall’antico e le opere originali, nel disegno interpretativo che s’è detto, giacché «la fotografia assume per Rosso il senso di una ricerca autonoma e compiuta, parte integrante e insostituibile di un incessante lavoro di ripresa di poche, essenziali immagini, che ha un equivalente in quella continua rielaborazione delle sculture da lui ideate entro i primi anni del Novecento».
Ed è sempre nella chiarezza dell’allestimento che quest’affermazione s’invera. Così come nella stratificazione di immagini di palazzo Altemps, dove le opere classiche convivono con le loro rielaborazioni rinascimentali, si realizza quell’idea instabile e perpetuamente dinamica dell’Antico, per la quale i modelli del passato rivivono in una continua tensione interpretativa, che dovette essere familiare anche all’artista. E passeggiando, tra le copie di Rosso e l’Ares Ludovisi, in questa convivenza di prossimo e di remoto, tornano in mente le pagine di Pater in cui Mario descrive la Casa di Cecilia, quella dimora che sembrava essere stata ispirata da «una renaissance alla moda antica (…) che concepiva un organismo nuovo non con un atto di creazione subitaneo e improvviso, ma piuttosto con l’azione di un principio nuovo su elementi che avevano già tanto vissuto, ed erano già morti più volte».