Rifugio alcolico più che presidio sanitario, l’infermeria del Teatro Ariston è da trent’anni l’arena in cui i membri del Club Tenco suggellano progetti e collaborazioni con Rossese doc e affini. «Guccini venne da me e mi disse: “Ma te che sei una tr… e hai lavorato per tutti… perché con me no? Ti sto sul c…?”. Me l’hai mai chiesto? risposi. “Forse non hai tutti i torti… parliamone!”». Mauro Pagani narra la genesi della sua recente revisione dell’opera gucciniana, raro esempio di lavoro sistematico su un autore vivente; ancor più raro perché «nato da un desiderio della Bmg». E i discografici, osserva, «raramente dimostrano lungimiranza».
È l’avvio di un’acuta riflessione sull’industria musicale italiana, di cui Mauro ha attraversato stagioni e congiunture come musicista, produttore, ricercatore. «A fine anni Sessanta i turnisti erano sottopagati, 4200 lire all’ora. In più c’erano i caporali, produttori che li chiamavano in studio e in cambio si facevano dare il 50% dell’ingaggio. Nel 1969, per suonare cinque o sei ore al night prendevo 9000 lire, 12000 se andava bene, mentre l’industria vendeva centinaia di migliaia di copie». La voce del padrone non ammetteva repliche neanche per le scelte artistiche: «I primi gruppi pop avevano un rapporto con i discografici assolutamente passivo e ubbidiente. Il direttore artistico prendeva la licenza di distribuzione per un pezzo straniero, tipo A Whiter Shade Of Pale, ne pubblicava una versione in italiano e poi, non essendoci importazione diretta, vendeva anche l’originale. Così guadagnavano due volte con lo stesso prodotto, ma nessuno dei gruppi poteva scegliere quale pezzo interpretare: per loro non eri neanche un artigiano ma un mero operatore meccanico».

L’AVVENTO DEL PROG ebbe quindi valenza non solo estetica. «Tra le sue radici c’era la musica classica e quella popolare, elementi della nostra cultura che ci mettevano finalmente allo stesso livello degli artisti inglesi e americani. Per la prima volta eravamo di moda, contemporanei, e avevamo un ampio potere interpretativo», tradottosi presto in potere contrattuale: «Quando Impressioni di settembre entrò nella top ten dei singoli chiedemmo alla Numero Uno di bloccarne distribuzione e vendita in attesa dell’album: entrare nella classifica dei 45 giri significava infatti inserirsi in un mercato del tutto diverso. Così andammo in studio, registrammo l’Lp Storia di un minuto e in dieci giorni balzammo al primo posto. Ma la Numero Uno era un’etichetta intelligente, c’era Sandro Colombini, e soprattutto il padre di Mogol, Mariano Rapetti, direttore delle Edizioni Ricordi, tutta gente che conosceva profondamente il mercato».
Poi gli anni della discomusic, autentico ritorno all’Ancien Régime — «Ai discografici non pareva vero liberarsi di quei rompicoglioni degli artisti» — il boom degli anni Ottanta e la stasi dei Novanta, preludio a una nuova crisi esplosa ben prima della pandemia. Nel frattempo Pagani da apprendista era diventato maestro di bottega, creatore di nuovi spazi attorno ai quali veniva formandosi un’ampia koiné artistica.

«HAI USATO UNA PAROLA che amo molto, e che si sente sempre meno, koiné… L’idea era proprio quella di un laboratorio creativo, della cui necessità mi ero subito reso conto. Mio padre aveva un’officina, mio nonno pure, ambienti ottocenteschi con cinghie e pulegge… da qui il nome Officine Meccaniche». Il superamento del criterio mercantilista, a vantaggio del valore artistico, resta al centro della sua visione, soprattutto oggi: «Non è un bel periodo per la civiltà occidentale, è la crisi di un sistema che fino a cinquant’anni fa conservava un minimo di identità culturale. Persino l’impero britannico aveva al suo interno intellettuali pronti a rischiare… oggi ciò che può vendere viene scelto solo per questo, ed è l’unica cosa su cui si è disposti a investire».
In un sistema in cui la cultura è sempre in prima linea, quando si tratta di tagli alla spesa, «non puoi neanche dare la colpa a chi distribuisce le risorse, se risorse non ne ha». È il fallimento della borghesia, le cui conseguenze non sono sanabili dal libero mercato. «È lo Stato che deve assumersi il compito di promuovere la cultura. Non è che di colpo gli italiani sono diventati tutti stupidi e incapaci di scrivere libri o comporre musica: ma guardiamo chi sceglie cosa, chi distribuisce. È possibile che l’unico criterio sia quello delle vendite? Possibile che non ci sia un ruolo dello Stato?».

AUSPICA INTERVENTI per rilanciare la creatività dei giovani autori: «I modi ci sono, stiamo aiutando tutte le categorie, si può dare ossigeno anche agli artisti, quanto meno coprendo i costi di produzione».
L’ottimismo di fondo di Mauro Pagani è tutto in un leitmotiv: «Siamo molto meglio di ciò che sembriamo». Passa la bellezza, recitava il titolo di un suo album. E di bellezza ne vede ancora tanta, «ma amarla e riconoscerla non basta. Non possiamo chiedere ai privati di sostenere la cultura, deve decisamente farlo lo Stato: è quella la nostra ricchezza comune».