Martin Barré

 

«È dalla metà degli anni cinquanta che ho cominciato veramente a manifestarmi. Le prime tele di quegli anni non avevano niente che rassomigliasse all’astrazione geometrica, né all’astrazione lirica; diciamo che cercavo di situarmi altrove». Così nel 1985 parla del proprio lavoro l’artista francese Martin Barré (Nantes, 1924 – Parigi, 1993). Un artista dall’intelligenza sottile che non ha mai opposto il valore costruttivo al sentimento poetico; al contrario, l’uno ha sempre stimolato l’altro e viceversa.
È proprio grazie a questa dote dialettica che Barré rivitalizza già a partire dai suoi esordi il quadrato di Malévitch. Questo punto di non ritorno dell’utopia modernista viene recepito nell’arte francese con un certo ritardo, e Barré lo pone al centro di nuove investigazioni. Il quadrato di Barré è una forma ripresa nei pieni e nei vuoti, oltre che nei concatenamenti che attraversano in modo multidirezionale la tela. Ed è ciò che accade nell’opera 57-100×100-A, dove il poligono, ricavato dall’affastellamento di forme grigie e brune nella parte inferiore, nella parte superiore resta un tutt’uno con lo sfondo della tela.
Il rapporto delle forme e dello sfondo è una costante nell’opera di Barré, tesa a scoprire lo spazio come luogo di resistenza alla sua totale occupazione. Questa tensione diviene più cogente quando alla fine degli anni cinquanta sperimenta la linea spremuta col tubetto sulla tela. «Quando ho cominciato a dipingere direttamente dal tubetto, non era il tubetto a interessarmi, quanto piuttosto la soppressione del pennello e della spatola che avevo utilizzato prima: e questo per una più grande riduzione-concentrazione», dice Barré, che nel 1960 espone alla Galerie Arnaud. Con questa nuova produzione l’artista rompe con l’ambiente astrattista parigino. Solo Pierre Restany difende la via intrapresa da Barré, dicendo che l’artista «si è sbarazzato d’un sol colpo (…) di un vocabolario di forme anacronistiche che prima invano si era sforzato di far rivivere». Restany non manca di accostare il monismo cromatico di Klein al nascente monismo lineare di Barré.
A differenza di un artista come Georges Mathieu, che usa il tubetto come uno strumento tra gli altri per le sue esibizioni da artista ispirato, Barré afferma un gesto che non ha niente di espressivo. Semplicemente mette a nudo un procedimento elementare di produzione della linea. Una linea dallo spessore variabile, che asseconda la pressione della mano e che parte da un punto per arrivare a un altro punto. Se ne può evincere il tempo di percorrenza nello spazio senza concessione a stati d’animo. Siamo quindi dinanzi al rifiuto di certa volontà espressiva del soggetto verso un’oggettivazione del gesto.
Sempre negli stessi anni, un’ulteriore messa a distanza del procedimento pittorico avviene quando Barré comincia a usare la bomboletta spray. L’effetto marcante e nebuloso notato nelle metropolitane lo intriga. Decide però di non usare altro che il nero. E questi lavori sembrano oscillare tra stasi e movimento, nettezza e evanescenze. Le zebrature e le frecce sono le modalità scelte per entrare in contatto con la superficie della tela. Dal 1960 al 1967, dalla pittura al tubetto alla bomboletta spray (usata non prima del 1963), Barré si dedica completamente alla linea. La linea può estendersi per tutta la tela, può ritorcersi su se stessa diventando scarabocchio, o apparire solo ai bordi. Ed è dal 1967 al 1972 che l’artista, sentendo esaurirsi il proprio compito pittorico, si dedica a un lavoro foto-concettuale.
A partire dal 1972 Barré riprende il lavoro pittorico, ma concentrandosi sulla griglia. Attiva lo spazio esterno all’opera attraverso una griglia immaginaria che fuoriesce dal quadro. Ricomincia da un lavoro dove più linee tracciate a grafite scompaiono e riappaiono dal fondo e dove ritornano il quadrato, le linee parallele, per attivare tutti gli ambiti sia all’interno che all’esterno della tela. E questo continuo velare il sottostante, a palinsesto, porta con sé la questione del tempo, ma anche, attraverso la griglia, della regola, pronta a essere trasgredita per reimmettere il soggetto in un tempo di oggettivazioni minimaliste.
Oggi l’importante retrospettiva al Centre Pompidou dedicata a Martin Barré, ottimamente curata da Michel Gauthier (fino al 5 aprile, ma attualmente il museo è chiuso causa Covid-19), permette di conoscerne l’intero percorso con 66 opere più una serie di 14 dipinti, L’Indissociable, realizzata tra 1977 e 1979.
Negli anni ottanta e fino alla fine, Barré lavora in modo seriale. Ma la serie è più un mezzo di produzione che un fine. «La serialità non mira a produrre tele quasi simili, ma a produrre opere il più possibile diverse tra loro, dove ciò che conta è la tela». Sono anni in cui la figura ritorna sotto forma geometrica e le tele hanno un loro specifico posizionamento installativo. Barré sostiene che «il dipinto deve rendere attivo il muro, ma soprattutto il muro deve attivare la tela». Linea-traiettoria, marcatura del campo visivo, sono alcune delle strategie utilizzate da Barré per rivelare lo spazio. Uno spazio, quello del fondo, che è in realtà lasciato molto scoperto dall’artista al punto da rendere sensibile il vuoto. E l’ultimo Barré delle forme minime quadrangolari allineate ai bordi della tela lascia ancora molto spazio al vuoto, alla riflessione, al silenzio.