Quattro sono le stagioni, gli elementi, i punti cardinali e i semi delle carte. Quattro le fasi del processo alchemico secondo Maria La Giudea, quattro le cause aristoteliche e i discorsi, o legami sociali, individuati da Lacan. Nella numerologia classica, il quattro è il numero della stabilità. Per i Pitagorici rappresenta la giustizia in quanto è divisibile equamente da entrambe le parti. La croce, sia greca che cristiana, lo mostra bene ripartendo una superficie in cui i contrari, l’alto e il basso, la destra e la sinistra, si trovano stretti assieme nella loro reciproca distinzione.

Nella tetrade l’uno diventa due, i due diventano tre e, per mezzo del terzo, il quarto compie l’unità. Sarà forse per questo che Marshall McLuhan ha fatto della tetrade la legge di produzione di ogni fenomeno umano? Rompendo con la santissima Trinità, la dialettica hegeliana e la proverbiale perfezione del numero tre, in La legge dei media. La nuova scienza (Edizioni lavoro, 1994) McLuhan ha enunciato, per la prima volta, il principio-guida dello sviluppo tecnologico: ogni cosa che l’uomo fa o produce possiede quattro dimensioni. Things come in fours, perché ogni innovazione umana avviene in quattro tempi, rigorosamente non cronologici, e produce quattro effetti, che si verificano senza eccezioni: incremento (enhancement), obsolescenza (obsolescence), recupero (retrieval) e ribaltamento (reversal).

Quattro domande difficili
McLuhan li eleva al rango di leggi: le tetradi sono le leggi dei media nella loro forma definitiva e, tuttavia, a differenza delle leggi scientifiche, esse non si esprimono in enunciati ma si incarnano, piuttosto, in una serie quaternaria di domande. Davanti a ogni nuovo artefatto che fa il suo ingresso nel «villaggio globale» bisogna infatti chiedersi: cosa rinnova? Cosa rende obsoleto? Cosa recupera? E in cosa, infine, si capovolge quando è spinto al proprio limite? In altre parole, secondo McLuhan, ogni innovazione umana è una rivoluzione scientifica nel senso in cui la intendeva Thomas Kuhn: ciascuna amplifica alcune capacità, ne ridimensiona altre, recupera, in una sorta di exaptation à la Stephen Jay Gould, le caratteristiche proprie a un medium precedente e, quando è «surriscaldata» (termine impiegato da Harold Innis, maestro di McLuhan), va incontro a uno sconvolgimento delle sue caratteristiche, che solleva nuovi problemi. Queste fasi, però, non si succedono nel tempo. Ogni innovazione innesca, bensì, effetti intelligibili solo se si assume un punto di vista sistemico o sincronico.

La tetrade è il punto di vista che coglie la natura simultanea e interrelata degli effetti provocati dall’irruzione di un nuovo medium – astratto o concreto poco importa – sulla scena. Definite «pedagogical tools» nel ‘94, le tetradi lo sono in quanto «mezzi per esplorare situazioni». Così le presenta Eric McLuhan, figlio e collaboratore del grande sociologo canadese, nelle prime pagine di Le tetradi perdute (traduzione di Fabio Deotto, Il Saggiatore, pp. 281, euro 23,00), testo pubblicato postumo nel 2017 e dedicato a questi bizzarri oggetti sociologici. Il punto di partenza sono i capitoli tematici di Gli strumenti del comunicare. Ma, nel corso della loro revisione, i McLuhan hanno trovato una chiave d’entrata completamente nuova allo studio dei media, che copre l’intero spettro delle invenzioni umane – dai prodotti hardware a quelli software – e che, per giunta, non si applica solo ai media.

Le tetradi regolano tutti i prodotti del comportamento umano e il comportamento umano stesso. Ogni cosa, per McLuhan, è una tetrade: la repubblica, la noia, il sessismo, la doccia, la città, il profumo e la legge di Murphy. Ed ognuna lo è in quanto umana, ossia linguistica. Prima ancora che domande, le tetradi sono metafore, metafore attive! Ed è così che vengono presentate in questo volume. Ogni tetrade è una «poesia a quattro versi» e le varie leggi, prese a coppie, seguono qualcosa di simile a uno schema metrico. Il medium, qui, è davvero il messaggio: se La legge dei media rappresenta il prodotto finito in forma di saggio accademico, Le tetradi perdute esibisce, al contrario, il processo grezzo di invenzione e sviluppo delle tetradi.

Ciò che, in effetti, colpisce subito l’attenzione di chi apre il libro è la sua struttura: una pioggia di tetradi, variamente commentate, corrette, riprodotte. Tutte insieme, queste specie di haiku sono raccolte in una forma che trascende la forma tradizionale del discorso. Dall’ascensore al secondo principio della termodinamica, ogni tetrade vi è presentata con il suo peculiare codice visivo ed è accompagnata dalle preziose spiegazioni del figlio di Marshall. La prospettiva strutturalista della Legge dei media vi si trova riconfermata e, nondimeno, non è necessario che il lettore conosca il vecchio testo per apprezzare la nuova, testamentaria, raccolta.

Graficamente rappresentata da una «x» composta da quattro quadrati con il nome del medium al centro, ogni tetrade afferra la grammatica e la sintassi del linguaggio di ciascuna «materia» le si sottoponga e lo fa in piena autonomia: «perdute» vuol dire «sciolte».
Nel ‘94, il compito della «nuova scienza» affidato a queste neo-leggi era studiare i media nel loro contesto storico, ossia nella loro evoluzione rispetto alle tecnologie che li avevano preceduti. E la tetrade, questa griglia a quattro sezioni così simile ai calligrammi surrealisti, è il dispositivo gestaltico-pragmatico che la registra mettendo a fuoco i cambiamenti occorsi una volta che una nuova tecnologia entra in circolazione. Anche per McLuhan, insomma, l’uso svela il significato: una cosa corrisponde a ciò che (se ne) fa, perché «essere» significa «fare». Normativa e descrittiva a un tempo, la tetrade «raggruppa le leggi che governano tutte le innovazioni», secondo un sistema di proporzionalità propria, che McLuhan giudica tipico di ogni struttura risonante.

Concetti senza precedenti

L’incremento sta al capovolgimento come il recupero sta al rendere obsoleto e «fa un’enorme differenza se uno mette nelle posizioni sbagliate le note di un accordo o le rime di una poesia o gli atomi di una molecola». Per capirlo, bastano due esempi: la bussola e il sogno. La prima incrementa le possibilità della navigazione; rende obsolete le stelle; ripristina l’astronomia come forma d’arte; si capovolge in sistema di navigazione inerziale. Il secondo: amplifica alcune banalità residue della giornata; trasforma l’ansia legata alle proprie nevrosi; riattualizza l’esperienza passata o infantile; si rovescia in veglia consapevole.
Libere e irregolari, le tetradi perdute sono concetti senza precedenti e non è mancato chi le ha accostate a uno scherzo privato del sociologo canadese.

Eppure, a fargli compagnia in questo gioco linguistico ci sono Shakespeare, Joyce, Eliot, Kuhn, Lévi-Strauss. Se di gioco si tratta, non è certo un gioco privato: le istruzioni per l’uso alla fine del volume e le tetradi lasciate vuote a mo’ di appendice invitano, chiunque ne abbia voglia, ad esercitarsi e continuare ciò che McLuhan ha lasciato incompiuto. Non solo, però, integrando la lista con gli smartphone, Skype, Internet e i social network. Bisogna azzardare un passo al di là della distinzione, ancora valida per McLuhan, tra cultura e natura, tecnica e vita: questo, almeno, sembrano suggerire le tre strane tetradi che si trovano a metà del libro: «vita», «ossigeno» e «Parmenide». Non è in fondo, ogni ciclo vitale, compreso quello umano, scandito in four quartets?