Aprendo le pagine che Mark Twain dedica alla Palestina nel suo Innocenti all’estero (1869), ci pare di ripercorrere i primi quarantatré Canti del Clarel (1856) di Herman Melville, scritti tuttavia con occhio e animo molto diversi. L’atmosfera da Vecchio Testamento, le tracce di sepolcreti e di mura del pianto sono le medesime. È, dunque, strano che quasi contemporaneamente, prima e dopo la Guerra civile, due grandi scrittori americani abbiano la curiosità di saperne di più dei luoghi di Cristo.
Il primo libro, quello di Twain, è una cronaca mascheratamente comica, l’altro, il lungo prezioso poema di Melville è, invece, un pellegrinaggio che coinvolge una ricerca personale, quasi una silenziosa catarsi rispetto al libro «diabolico» (Moby-Dick) che gli aveva stroncato la carriera di scrittore nel 1851 o, come apertamente si narra, rispetto a un ricongiungimento alla fede da parte di un giovane clericus vagans che ha malauguratamente letto (ahimè in America) Charles Darwin. L’enciclopedico Clarel, tradotto in italiano un paio di volte, sarà pubblicato solo dopo una ventina d’anni dalla sua composizione, quando il cauto Mark Twain continuerà a farsi trainare dal suo successo (almeno fino a Huckleberry Finn) e, quindi, poteva permettersi qualsiasi diabolica e assurda irriverenza per creduloni, sotto la copertura della serietà della trasferta all’estero. Bastino a notarlo le pagine millantatrici dedicate alle grandi città del nostro paese. Tuttavia, il dramma («satanesco») arriverà, anche per lui, come per Melville, benché molto più tardi, ovvero negli ultimi folli anni della sua carriera, quelli dello Straniero misterioso del 1908, uscito postumo nel ’16 e dell’Uomo che corruppe Heidelburg pubblicato nel1900.
L’editore Mattioli 1885 manda adesso in libreria due spezzoni degli Innocenti all’estero, etichettati Verso Nazareth e Ritorno a Costantinopoli (traduzione di Livio Crescenzi, pp. 259 e 109, ciascuno € 16,00), due titoli speculari, un’andata in una terra multietnica – sebbene di forte richiamo cristiano – e un ritorno in un dominio musulmano, dopo aver pubblicato Finalmente Parigi e, appunto, il resoconto della visita nel nostro paese, allora impegnato a completare un Risorgimento irredentista, da cui In questa Italia che non capisco – il secondo spezzone dei quattro – sarebbe fuoriuscita l’unità politica italiana, ma non la culturale. Ed è forse per tale ragione che Twain si trova spaesato e non «capisce» i costumi dei vari italiani in cui s’imbatte. Mattioli 1885 completa così, in tappe frammentate di viaggio, lo spumeggiante Innocenti all’estero. Ogni volumetto ha, in effetti (e in questo si perdona la frammentazione di un classico americano), un senso e una circolarità suo proprio, ovvero di racconto autonomo e autosufficiente.
L’inizio di Verso Nazareth segna l’antifona della pirotecnica magia di viaggio che seguirà: «Da Efeso non abbiamo portato via nemmeno una reliquia! – scrive Twain – dopo aver raccolto frammenti di marmi scolpiti e dopo aver spezzato qualche decorazione dall’interno delle moschee, e dopo che, a costo d’infiniti guai e di fatica, abbiamo trasportato tutta quella roba fino alla stazione a dorso di mulo, un funzionario governativo ha sequestrato in malo modo tutti quegli oggetti. Direttamente da Costantinopoli, aveva ricevuto l’ordine di stare attento in modo particolare alla nostra comitiva, e di verificare accuratamente che non portassimo via nulla da lì». Insomma, il nodo esordiente di Verso Nazareth, si può paragonare a quello di un Melville che pensa di sottrarre alla Galleria Corsini l’allora venerata Beatrice Cenci. È chiaro che qui Twain prende per i fondelli sia il tradizionale grand tour per pellegrini appassionati sia l’abissale ignoranza dei suoi compatrioti che sono, sì, davvero degli «innocenti», ovvero ‘senza colpa’ dei loro peccati compiuti da turisti, sia dei miserandi inconsapevoli di quanto c’è di bello e di prezioso al mondo (altro che la loro America!).
Quanto al Ritorno a Costantinopoli che, nel percorso descritto, precede Verso Nazareth, le cose non erano andate neanche lì nel modo giusto. La ricchezza di informazioni apparentemente esagerate che Twain ci regala è un pozzo senza fondo e, si badi, nella loro assurdità – forse con un po’ di eccessiva malizia – valide, chissà, ancora oggi in qualche angolo oscuro dell’ex grande Impero Ottomano: «A pranzo ho mangiato in un locale turco e m’è bastato. Il cuoco era sudicio, così come lo era il tavolo privo di tovaglia. Il tipo ha preso una massa di carne sotto forma di salsiccia, vi ha avvolto una cordicella e l’ha messa a cuocere. Quando era pronta, l’ha tolta e l’ha messa da parte al che un cane che passeggiava con l’aria mogia mogia ha dato una mordicchiata a quella cosa. Beh, prima l’ha annusata, e probabilmente vi ha riconosciuto i poveri resti di un suo amico. Il cuoco gliel’ha strappata dai denti e ce l’ha messa davanti nel piatto. Jack ha detto: ‘quanto a me… passo’ – a volte gioca a poker – e a turno abbiamo passato tutti. Poi il cuoco ha infornato una focaccia di grano ampia e piatta, l’ha unta bene con la salsiccia, e l’ha lanciata verso di noi. La focaccia è caduta sul lurido pavimento, l’ha raccolta, le ha dato una pulita strofinandosela sulle brache, e ce l’ha servita. Jack ha detto: ‘Passo’. Abbiamo passato tutti».
Ça va sans dire. Mark Twain il genio ce l’aveva (e tanto), così come Melville aveva genio e inclinazione alla contemplazione, e nessuna ispida ironia. Hanno pagato entrambi un successo di poca durata per Melville e per Mark Twain una giusta fama, sebbene, alla fin fine, mal impiegata.