Disponibilità sempre, ignoranza mai, dolcezza infinita su tutto, sapienza nell’evitare i conflitti predisponendo l’animo al meglio per sé e per gli altri.

Questo era lo spirito con cui lavorava Maria Ferretti. E non era facile nella redazione de il manifesto, sempre irrequieto non solo per la realtà italiana dell’inizio degli anni ’80, ma per il mondo anche allora terribile, ancora diviso in due blocchi. C’era ancora l’Unione sovietica ma cominciava la lenta, inarrestabile implosione del socialismo reale.

Di questo mondo Maria Ferretti era esperta.

Slavista e storica, apparteneva alle grandi famiglie di Aldo Natoli e Enzo Collotti.

Da quella realtà in fermento Maria, con il lavoro di cura di Rossana Rossanda e di K. S. Karol, fu la prima corrispondente, prima di Asja Lichtestein (Elisabetta Castellani) e del nostro inviato a Mosca Astrit Dakli.

Per le corrispondenze politiche si firmava Voland, e Maria Ferretti per quelle culturali.

Voland vuol dire «diavolo», ed è il protagonista di una parte preziosa de Il maestro e Margherita di Andrej Bulgakov.

Era lei che ci avvertiva di ogni piccolo fremito nel Pcus, dei primi scricchiolii del potere di Husak a Praga. Che seguì l’inizio del movimento operaio polacco di Solidarnosc; la prima ad accorgersi sulle nostre pagine quotidiane e negli approfondimenti della Talpa, delle trasformazioni nell’Est Europa.

Come quando scrisse divertita nel 1983 dei provvedimenti presi in Romania dal Conducator Ceausescu: una dieta dimagrante perché i romeni erano «contenti, ma obesi», con proibizione della macchina da scrivere per i soggetti pericolosi: «anche agli obesi», titolò.

Consapevole più di tutti noi dello stravolgimento che si anticipava dell’89.

Fu lei a raccontare da Mosca il colpo di Stato burocratico militare che puntò a deporre Gorbaciov nell’agosto 1991 e aprì la strada all’epoca feroce di Boris Eltsin.

Era colta, informata e saggia.

Diffidava della esaltazione della letteratura sovietica – chi lo stava facendo sarebbe passato poi a denigrarla – e della sua specificità per rapporto all’Ottobre e alle degenerazioni di Stalin e dello stalinismo; ma era la prima a difendere le novità in poesia, letteratura e saggistica.

Alle parole del linguista Roman Jakobson che definiva l’epoca lapidariamente come di «una generazione che ha dissipato i suoi poeti», aggiungeva che la dissipazione vera, la corruzione aveva raggiunto l’idea stessa di comunismo.

Così l’abbiamo conosciuta, sempre pronta a darci una mano, ad approfondire, ad illuminare. Aveva richiamato negli ultimi anni proprio per mettersi a disposizione.

Poi la malattia che a 59 anni l’ha consumata in pochi mesi e l’ha portata via. Ma Voland, il diavolo, resta con noi per sempre.

Tommaso Di Francesco

L’archivio in scatole da scarpe per migliorare il mondo

Scatole, scatole bianche. Scatole da scarpe bianche. Scatole da scarpe bianche piene di schede tagliate su misura.

Centinaia, migliaia di schede coperte di appunti, che quasi impedivano l’ingresso alla sua stanzetta di forse 9 metri quadri nel Collège Franco-britannique alla Cité Universitaire di Parigi. Così ricordo Maria, nel lontanissimo 1983.

Tutte quelle schede erano la base per il suo lavoro sui corrispondenti operai negli anni Venti, quello che poi sarebbe diventato la sua tesi di dottorato, «Le mouvement des correspondants ouvriers, 1917-1931: révolution culturelle et organisation du consensus dans l’Union Soviétique des années 1920», sotto la direzione di Jutta Scherrer.

Martedì mattina, dopo una lunga malattia affrontata con coraggio, Maria Ferretti se n’è andata.

Voland non c’è più. Un’altra perdita per il manifesto, per la cultura italiana, per tutti coloro che vogliono ragionare, capire, migliorare il mondo, o almeno il mondo che sta fra il mar Baltico
e l’oceano Pacifico, l’immensa Russia a cui Maria Ferretti aveva dedicato tutta la sua vita di studiosa.

L’avevo rivista dopo molti, troppi anni di contatti saltuari, a Parigi qualche mese fa. Era allegra, ottimista come sempre, nonostante i dolori che si annunciavano. Aveva fatto il suo intervento a un convegno, era venuta a cena, aveva scherzato con le amiche.

Era sempre convinta di quello che mi aveva detto trent’anni fa: «Bisognerebbe discutere non di quello che il comunismo ha fatto alla Russia ma di quello che la Russia ha fatto al comunismo, infangandone l’idea per decenni».

La ricorderemo non solo per la sua immensa cultura di specialista dell’Unione Sovietica ma anche per la sua acuta intelligenza politica e la sua straordinaria dolcezza.

Fabrizio Tonello

Al Verano l’ultimo saluto

Giovedì 12 aprile alle 15, l’addio al Tempietto egizio del Verano di Roma.

Un abbraccio alla figlia Elena, al compagno Alexis, a Claudio e Roberta Natoli, a Enzo Collotti dal Collettivo de il manifesto