Proprio la determinazione di Marcuse nel cercare un confronto diretto con la prassi, e lo sforzo non semplicemente di cogliere il proprio tempo nel pensiero, ma di cambiarlo, ha segnato tanto la sua fortuna negli anni dell’impegno, quanto l’oblio in quelli del riflusso. Che l’Europa sconvolta dalle guerre, dai regimi nazi-fascisti e dall’antisemitismo, non fosse l’esito di una devianza della ragione verso l’irrazionale, ma piuttosto il risultato più conseguente della stessa ratio – in quanto strumento di dominio – era il fulcro teorico intorno al quale ruotavano le direttrici di pensiero (tra loro anche molto diverse) che facevano capo all’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte.

Il capovolgimento della ragione da strumento di emancipazione a dispositivo di oppressione costringeva non solo a ripensare il nesso tra teoria e prassi, ma a mettere in questione la legittimità stessa del pensiero: come scriveva Adorno, la filosofia si manteneva in vita perché era mancato il momento della sua realizzazione.

Se per Adorno e Horkheimer ogni transizione dalla teoria alla prassi risultava irrimediabilmente bloccata, per Marcuse la possibilità e le forme di quella transizione dovevano diventare, soprattutto negli ultimi anni del soggiorno statunitense, il campo esclusivo sul quale misurare il senso e la potenza del pensiero.

A testimonianza di questa inclinazione è diventata da poco disponibile una raccolta di interventi inediti del filosofo raccolti in Lezioni americane 1966-1977 (a cura di Luca Mandara, Mimesis, pp. 157, € 16,00) dove si abbraccia quel decennio decisivo, che incrocia l’impegno politico più intenso del filosofo.

Come spiega la interessante introduzione del curatore, il libro riproduce fedelmente l’edizione inglese, includendo quindi anche gli apparati e i testi dei curatori americani, che offrono uno scorcio sulla ripresa degli studi dedicati al filosofo, soprattutto in ambito anglosassone. Gli inediti, invece, permettono di ripercorrere i momenti fondamentali di questa fase delicata e problematica del percorso filosofico di Marcuse. Se i primi due testi risalgono alla fase costruttiva e propositiva che precede l’irrompere della contestazione del ’68, gli ultimi tre si situano agli albori di quella «controrivoluzione preventiva», come la chiamava Marcuse, che oggi chiamiamo neoliberismo. Particolarmente interessante è la capacità di Marcuse di mantenere in ogni fase il pensiero aperto a quello che Adorno avrebbe chiamato «primato dell’oggetto», vale a dire tanto alla dinamica concreta e vincolante dei processi, quanto alle potenzialità reali dei movimenti sociali.

In entrambi i casi, al pensiero spetta il compito di confrontare la volontà di cambiamento con le condizioni di oggettività, per sfuggire tanto al determinismo storicistico, quanto allo spontaneismo della volontà. Come spiega in una delle prime lezioni, infatti, la filosofia «fa esperienza dei fatti che le sono dati nella logica di una dicotomia fondamentale» ossia «della contraddizione della condizione umana tra il potenziale e il reale», nella consapevolezza che solo la prassi concreta, e non già il pensiero nella sua autonomia, può colmare questo iato. È importante sottolineare che non solo la politica nell’accezione più consueta, ma anche l’arte, ad esempio, è una forma di prassi.

Proprio in quanto prassi alternativa, che «utilizza il materiale storico dato» in «maniera qualitativamente diversa», l’opera d’arte è – infatti – una forma di resistenza: non semplice prefigurazione di una trasformazione, ma suo esercizio in atto.

È quindi all’arte che la prassi deve guardare nel momento in cui ogni trasformazione generale appare preclusa: non per rifugiarsi nel cerchio rassicurante della sua autonomia estetica, ma per imitarne la facoltà esecutiva, ossia mettendo in atto, già qui ed ora, forme alternative di sociazione incompatibili con lo stato di cose presente. Solo la loro reale effettualità, infatti, renderà queste forme di resistenza anticipazioni di una trasformazione realmente possibile, e non espressione di un ripiegamento narcisistico. È in questa tensione dialettica tra attuale e possibile che Marcuse ci invita a soffermarci: per non cedere allo strapotere del reale, senza cadere nell’autoreferenzialità del volontarismo.