Più che una manovra economica somiglia ormai a un romanzo epistolare. L’ultima missiva in ordine di tempo porta la firma di Sergio Mattarella e accompagna, come mai verificatosi prima, la firma apposta dal capo dello Stato alla legge di bilancio. Il presidente è, al solito, sintetico: poche righe per arrivare alla frase essenziale e finale: «È mio dovere sollecitare il governo a sviluppare – anche nel corso dell’esame parlamentare – il confronto e un dialogo costruttivo con le istituzioni europee». Non si tratta di un monito, e l’inquilino del Colle soppesa le parole per evitare che lo sembri. È piuttosto una specie di “suggerimento pressante” al quale Mattarella arriva seguendo un percorso più incisivo della conclusione, in sé prevedibile.

LA LETTERA ESORDISCE rivolgendosi al governo «nel comune intento di tutelare gli interessi fondamentali dell’Italia» e di mettere il Paese, soprattutto i risparmiatori, «al riparo dalla instabilità finanziaria». Subito dopo Mattarella cita esplicitamente tre articoli della Carta costituzionale, l’81, il 97 e il 117: aggiunte recenti che riguardano tutte l’equilibrio di bilancio o la tutela del risparmio e che rinviano al rapporto con la Ue. Mattarella non manca di citare anche «la legge costituzionale n.1 del 2012», quella su cui si basa l’Ufficio parlamentare di bilancio.

È la seconda volta in due giorni che il presidente Mattarella cita quelle aggiunte alla Costituzione, e non si tratta certo di una coincidenza. Da un lato il capo dello Stato vuole ribadire che quegli articoli sono parte integrante della Carta, glissando sul fatto che due di quei tre articoli sono in realtà stati approvati con la pistola europea alla tempia. Dall’altro intende sgombrare il campo dalla narrazione che indica «le osservazioni e la richiesta avanzate dalla Commissione europea» e «le valutazioni» dell’Upb come una imposizione esterna. Al contrario, segnala il capo dello Stato, l’Europa fa leva su componenti autonome e sovrane della Costituzione italiana. Non si tratta di una pressione esterna ma di un comune orizzonte: solo su questa base si possono avviare «confronto e dialogo costruttivo».

È UNA VIA RAFFINATA, un po’ tortuosa, molto democristiana, per indicare una via precisa, pur mantenendosi rigorosamente nei limiti del ruolo del Colle. Nel concreto e tra le righe Mattarella suggerisce di mostrarsi duttili, se non sul deficit, almeno nelle modalità e nei tempi d’applicazione delle misure che hanno innescato il conflitto. Nella forma, che è fondamentale, si tratta invece di riconoscere l’autorità della Commissione e dell’Upb, sulla scorta della Costituzione: non significa dover obbedire ma neppure proseguire con esternazioni marcatamente ostili. Va da sé che l’indicazione vale per il governo italiano ma anche, implicitamente, per una Commissione altrettanto condizionata dalle esigenze della campagna elettorale.

LA REPLICA, non del solo Conte ma di palazzo Chigi, a significare il coinvolgimento dell’intero governo, arriva a stretto giro. Assicura che «l’interlocuzione con la Commissione avviene nel contesto di un dialogo proficuo e costante». Prosegue elencando le ragioni che hanno spinto il governo alla manovra sotto accusa. Sono quelle giù più volte squadernate dallo stesso presidente del consiglio Conte e dal ministro Tria, con in più, stavolta, una maggiore insistenza sugli investimenti, sia pubblici che privati: tema centrale per l’Europa.

Del resto il “consiglio” di mostrare duttilità, il governo lo ha già accolto da un pezzo. Rispetto alla prima versione del Def, la manovra è già profondamente cambiata e ancora di più potrebbe cambiare per gennaio. Tria cercherà di dimostrare alla Commissione che la platea di quota 100 si è già molto ristretta e non è escluso che venga ulteriormente sforbiciata con interventi che, senza mettere una penale esplicita, funzionino però allo stesso modo.

Dietro la rigidità di bandiere sul 2,4% il governo gialloverde è in realtà piuttosto cedevole nella sostanza. Sulla forma, che in questo caso ha la sua importanza, invece Mattarella non ha ancora raggiunto i risultati sperati. Ma ieri Salvini e Di Maio, che appena un mese fa avrebbero strillato fortissimo, sono rimasti in prudente silenzio. Sul Colle è stato preso come un segnale positivo.